C’è una storia, lunga quasi 87 anni, che non accenna a finire, e che si protrarrà. Ancora a lungo. È la storia che accompagna un vino, apparentemente destinato a esser vino come molti altri, ma per il quale il destino, o Bacco, o chissà quale entità a noi sconosciuta, ha previsto – a un certo punto – un percorso diverso.
Il feudo di Mazzaronello, adesso nel Comune di Chiaramonte Gulfi
– nel Ragusano – ma un tempo nel Comune di Caltagirone, è un fondo di oltre 1.500 ettari dove la famiglia Jacono della Motta coltivava perlopiù viti e olivi. Qui la terra è avara e luminosa, e non è possibile impiantare coltivazioni mirate alla quantità. Le viti sono allevate ad alberello, gentile omaggio della cultura ellenica, e la produzione si assestava appena intorno ai trenta quintali per ettaro.
Nel 1932 la vendemmia di uve frappato, nero d’Avola e grossonero produsse vino per 165 ettolitri, conservati in nove botti di rovere di Slavonia, nella piccola cantina aziendale, parzialmente interrata. Fu l’ultimo raccolto per Nicolò Jacono della Motta, alla cui scomparsa seguì l’espianto del vigneto, in favore di coltivazioni giudicate allora più redditizie. Le botti numero 2, 3, 8 e 9 furono dimenticate per 53 anni, fino a quando nel 1985 Marida Jacono della Motta, nipote di Nicolò, non ne fece degustare il prezioso contenuto a Piermario Meletti Cavallari. Questi a sua volta coinvolse nell’assaggio Luigi Veronelli: fu la svolta. Il Maestro ne scrisse un articolo per Capital , definendolo “mostruoso”, riconoscendone l’unicità per storia e caratteristiche:
In quattro botti – la 2, la 3, la 8 e la 9 – della cantina dei marchesi Jacona della Motta, sita in Mazzaronello, meditano, dal 1932, i 165 ettolitri del più prezioso vino d’Italia. Frutto di uve, che non conosco, della vicina località Sperlinga, s’offre – dopo 50 anni di meditazione – uguale e diverso (da botte a botte), in un modo che non esito a definire superbo.
Tre botti su quattro furono finalmente imbottigliate dalla Cantina dei feudi: la numero 3 non fu ritenuta idonea. Poche bottiglie da 0,375 litri, per pochi fortunati appassionati. Giovedì scorso un amico mi ha telefonato, coinvolgendomi nella degustazione di una di queste piccole rarità, proveniente dalla botte n. 9.
Stassentire l’esame organolettico che gli assaggi, ripetuti e, di volta in volta, più stupefatti, mi fanno osare per la botte numero 9: colore tonaca di monaco, sfatto e tuttavia caldo e brillante: bouquet ampio, serio e fitto in cui si sottolinea il sentore di sommacco; sapore secco sicuro e autoritario, certo ‘vecchio’, altrettanto nobile e affascinante; nerbo deciso in stoffa di eccezionale rigore ed estrema persistenza, pieno di carattere e razza. Per te, che sai, si fa immediato il ricordo del Marsala, più degno.
Cosa posso aggiungere io, alle parole di Veronelli? Poco: la personale sensazione di aver provato un vino – ma è un vino? – davvero speciale, per nulla sconfitto dal tempo e anzi desideroso di sorprendere ancora. Sorprendere per l’estrema complessità olfattiva, il caleidoscopio di sensazioni gustative e la permanente traccia che lascia al palato, anche parecchio tempo dopo aver mandato giù l’ultima goccia. Ora da Re è il nome scelto dallo stesso Veronelli, convinto che chi avesse avuto la possibilità di provare questo vino avrebbe trascorso un’ora indeminticabile. Aveva ragione.