Avete in mente la filastrocca per imporre una penitenza: dire fare baciare lettera testamento? Gli antichi romani forse recitavano: dire bere baciare lettera testamento… Peccato però che la penitenza fosse tra le peggiori possibili: morire d’inedia o in qualche caso a bastonate.
Facciamo un passo indietro, anzi molti passi indietro. Dimenticatevi i banchetti sontuosi di Trimalcione con le matrone romane discinte e pienamente a loro agio come nel Satyricon di Petronio, reso sullo schermo dal grande Fellini.

Torniamo invece all’età repubblicana e parliamo dello ius osculi (diritto di bacio). Praticamente permetteva ai parenti più stretti di baciare la donna di casa. Non si trattava di manifestare affetto verso una persona di famiglia ma al contrario era invece una pratica per controllare che la donna non avesse bevuto vino. I parenti che la baciavano erano gli stessi che poi affiancavano il marito nel giudicarla. Solitamente la punizione era la morte per inedia: una punizione davvero eccessiva. Per i romani la donna, bevendo il vino, poteva lasciarsi andare, perdere il controllo e quindi parlare “troppo” e magari commettere adulterio. Un’usanza codificata per controllare il silenzio delle donne. 

E i maschi romani invece cosa bevevano? Il vino, dopo l’acqua, era la bevanda più utilizzata nel mondo romano antico. 
Ne parlano bene Properzio, Marziale e Orazio. Seneca scrive: “Ogni tanto è bene arrivare fino all’ebbrezza, non perché questa ci sommerga ma perché allenti la tensione che è in noi. L’ebbrezza scioglie le preoccupazioni, rimescola l’animo dal più profondo e, come guarisce da certe malattie, così guarisce anche dalla tristezza”. Ma ricorda anche di essere moderati nell’uso del vino.
Il vino, infatti, si beveva solitamente unito all’acqua in una proporzione che di volta in volta veniva stabilita, nei banchetti, dal magister bibendi. Una ostentazione di ricchezza era invece, bere il vino raffreddato facendolo passare attraverso la neve.
I romani, frequentemente, bevevano il mulsum, cioè il vino unito al miele e Apicio, il cuoco romano più famoso della storia, riporta di un vino mielato condito con pepe e numerosi altri ingredienti. Ancora Apicio ricorda un vino mielato condito con il solo pepe e aggiunge che questo vino si conservava e veniva dato ai viandanti. 
L’imperatore Alessandro Severo beveva, ogni giorno, due sestari di vino mielato con il pepe e quattro senza aggiunta di pepe.
Un affresco a Pompei
Macrobio scriveva che, per avere un vino mielato gradevole al palato, occorre mescolare miele fresco dell’Imetto e vino vecchio Falerno. Anche Plinio consigliava di impiegare il vino vecchio, che per sua caratteristica aveva un sapore leggermente amaro, perché quello dolce non si univa altrettanto bene al miele. Marziale preferiva gustare il prelibato Falerno senza l’aggiunta del miele. Columella, famosissimo agronomo dell’epoca, di cui abbiamo già scritto, suggeriva di impiegare il mosto derivato dal naturale gocciolamento dell’uva prima che venisse pigiata.
Un condimento abbastanza frequente del vino era la resina (resinata vina) che infondeva nel vino il suo caratteristico sapore ma Marziale considerava questo vino scadente.
Oppure il vino poteva essere aromatizzato con la mirra e sempre Marziale suggeriva, a coloro che bevevano il Falerno caldo, di unire la mirra per esaltarne il sapore.
Apicio suggeriva un metodo facile per condire il vino: mettervi in infusione dei petali di rosa, bene asciutti, per tre volte ogni sette giorni. Quando si tratta di utilizzare questo vino: rosatum, bisogna aggiungere miele. Se possono usare, in alternativa, petali di viole, per ottenere il violacium
L’imperatore Eliogabalo offriva al popolo vino rosatum o vino mielato, oltre a vino aromatizzato, appositamente sistemato in piscine e in tinozze da bagno. 
Quali vini? Plinio parla, solo per Roma, di ben ottanta qualità di vino! Il più apprezzato era il Falerno (in generale i vini provenienti dalla Campania era considerati i migliori in tutto l’impero), ma Orazio scrive anche del Caleno e del Cecubo e Marziale dell’Albano. Senza dimenticare il Mamertino, vino tra i preferiti da Caio Giulio Cesare.
Ed eccoci quindi al Falerno! Come abbiamo già visto, il migliore: il suo nome era sinonimo di lusso. Doveva essere ottenuto solo da uve provenienti da specifiche zone del Monte Falerno. Il Falerno Caucino era coltivato sui pendii più alti, il Faustiniano – ritenuto il migliore – sui terreni di Fausto, figlio di Silla, più in basso era semplicemente Falerno. Il più pregiato era considerato quello bianco, invecchiato almeno dieci anni, anche per rendere il colore più dorato. Il fatto di essere coltivato in una piccolissima area e di aver bisogno di un così lungo tempo di invecchiamento lo rendeva un vino di élite. Secondo una leggenda, Bacco, avendo ricevuto ospitalità da un contadino che non lo riconobbe come un dio, lo ringraziò trasformando in Falerno tutto il latte della casa.

Un mosaico romano raffigurante Bacco
Anche allora si parlava di annata eccezionale: è del 121 a.C. quella del Falerno Opimiano (dal nome del console in carica Opimio). Fu consumato da Giulio Cesare, ma sembra che un Opimiano di 160 anni fosse stato servito a Caligola; Marziale, lo considerava “immortale”.
Non dimentichiamo poi l’uso che ne fece Galeno, il più famoso medico della storia romana che lo consigliò intorno al 170 d.C. all’imperatore Marco Aurelio per diverse malattie. Galeno controllava personalmente e meticolosamente le anfore oltre i venti anni di invecchiamento perché, essendo il miglior vino, non poteva che essere anche la migliore delle medicine.
Arrivati alla fine di questo percorso apprezzo il fatto di essere nata in un secolo nel quale – per fortuna – i miei familiari mi baciano solo per affetto, soprattutto se degusto un Falerno in loro compagnia…
Anche se oggi il Falerno più conosciuto è certamente quello rosso, sono andata a riscoprire anche quello bianco. Del resto, nell’antica Roma, sembra fosse il più apprezzato. Alla faccia di Cesare, Caligola e Marco Aurelio… io me li assaggio tutti e due!

Mi piace prima però ricordare il fondatore di Villa Matilde, Francesco Paolo Avallone, perché è grazie alla sua passione per i versi di Virgilio, Marziale, Orazio e i racconti di Plinio, che decide di riscoprire il Falerno, reimpiantando dei ceppi sopravvissuti alla fillossera.

Il rispetto dell’ambiente e del territorio, portano oggi questo azienda a perseguire il progetto “Emissioni Zero“: progetto che in una provincia, spesso conosciuta per questioni ambientali devastanti, merita davvero un plauso!

Prodotti entrambi nelle tenute di San Castrese e Parco Nuovo, a ridosso del vulcano spento di Roccamonfina che dona a questi vini una incredibile mineralità

Falerno del Massico Bianco DOP 2015Villa Matilde – Falanghina 100% – biotipo falena, 13,5° vol.  – Giallo paglierino con sfumature dorate, abbastanza consistente; al naso il vino si presenta con profumi intensi di ginestra, erbe secche, in particolare salvia, mela golden e frutta tropicale, con una piacevole nota minerale di sottofondo. L’ingresso in bocca è caldo e sapido, la frutta si sente meno ed emergono le note minerali e di erbe aromatiche, dapprima la salvia per passare poi al rosmarino. Di buona intensità e persistenza.
Falerno del Massico Rosso DOP 2011Villa Matilde – Aglianico 80%, Piedirosso 20%, 13,5° vol. – Un bel rubino consistente per questo vino che si offre all’olfatto con un intensità speziata di pepe nero, marmellata di frutti piccoli neri, mora e mirtillo donando al naso sentori alternati più dolci e più aspri, seguiti da un piacevole profumo di tabacco biondo. Ottima persistenza in bocca dove emerge con chiarezza la nota speziata e tostata, accompagnate da una discreta freschezza e da un’ottima sapidità. Anche qui la mineralità è ben espressa sia al naso, sia al palato.

Finiamo dunque con Virgilio che, nelle Georgiche, scriveva: “Nec cellis ideo contende Falernis“, perciò nessun vino può essere paragonato al Falerno!