Giunto alla tredicesima edizione nella sua versione meneghina,
Identità Golose svoltosi dal 4 al 6 marzo scorsi ha definitivamente iscritto il proprio nome alla voce
“Eventi Must”. Perché? Semplice: non c’è nulla che gli assomigli, sia in termini di
concept che in qualità dei protagonisti.
Un format semplice e straordinariamente di successo, lo stesso riscosso nelle edizioni di San Marino, Londra, Shanghai e New York.
Un congresso dei migliori chef e pasticcieri italiani, certo, ma anche un’occasione di incontro e di crescita sviluppata attorno a un tema ogni anno diverso.
Quest’anno il soggetto scelto da Paolo Marchi è stato “La forza della libertà: il viaggio“.
Scrive il Creatore di Identità Golose:
Il viaggio come tema di Identità Milano 2017 per ribadire che tutto quello che consumiamo, non appena usciamo dalla schiavitù della povertà che ci inchioda a mettere nello stomaco quello che c’è, è frutto di viaggi. Tutto viaggia e da sempre: viaggia l’uomo, viaggiano i prodotti, viaggiano le idee.
Il mondo a noi caro, quello del vino, è estremamente legato al viaggio. Il vino è scoperta e difficilmente si possono scoprire nuovi produttori e nuove sensazioni restando chiusi in casa o frequentando gli stessi wine bar.
L’esempio principe è fornito da Vino al Vino di Mario Soldati, il libro che ha idealmente formato intere generazioni di winelovers, professionisti e non, compreso chi scrive; migliaia di appassionati che da allora hanno ripreso la missione di Soldati e l’hanno riproposta non solo in chiave nazionale ma in tutto il mondo. Il viaggio di Vino al vino è il precursore di tutte le gite vitivinicole, piccole o grandi che siano.
A Identità Golose 2017 le idee hanno viaggiato eccome, sospinte dal talento degli interpreti negli accoglienti spazi del MiCo e diffuse ai social con l’hashtag #IGmi17: ci siamo stati sabato 4, giornata dedicata – tra l’altro – a Identità di formaggio e Identità di gelato.
Stuzzicante e ricco di spunti l’intervento di Moreno Cedroni che, presentando un’originale ricetta di gelato al baccalà, ha rimarcato l’importanza degli ingredienti a chilometro zero unitamente alla consapevolezza della provenienza degli stessi.
Per noi amanti del vino la selezione del Merano Wine Awards firmata The Wine Hunter è stata una sciccheria: ottanta le aziende presenti, per duecentocinquanta eccellenze nel calice.
Ecco una breve sintesi delle cose che abbiamo provato:
Dalla zona di produzione storica del Prosecco, azienda con vigne nei Comuni di Vidor, Valdobbiadene e Farra di Soligo. È un produttore che punta alla pulizia, all’equilibrio e pone molta attenzione alla chiusura di bocca, ricercata e fine.
Sul lievito 2015, viene da uve leggermente più mature rispetto alla media, è imbottigliato a fine marzo con fermentazione spontanea.
Non c’è zucchero residuo. Avvicinando il calice al naso si avvertono subito aromi di mela verde e di panetteria, molto nitidi e diretti.
Carlo Padoin, prima che io dica una parola, mi racconta un aneddoto: c’è una panettiere a Valdobbiadene che si alza molto presto al mattino per andare a lavorare; la stessa cosa fa un fruttivendolo.
Entrambi si ritrovano alle dieci del mattino al bar a bere un bicchiere di prosecco e fare una pausa. Gli aromi che percepiscono nel vino sono gli stessi che ciascuno porta con sé, appunto lievito e frutta. Una storia semplice, come questo spumante beverino e tuttavia appagante.
Spontaneo.
Il Bosco di Gica Brut è prodotto da uve provenienti dai tre Comuni dove l’azienda ha vigne, vendemmia anticipata, rifermentazione in autoclave, come da tradizione.
Equilibrio è la parola d’ordine per questo spumante. Sia al naso, dove tra agrumi e lieviti va in scena un balletto di danza moderna, sia in bocca dove a tratti prevale la nota fermentativa sui piacevoli ritorni di limone verde. Joaquín Cortés.
Il Salento è considerato la patria dei vini rosati italiani. Tramari fa capire il perché: rosé di primitivo, coniuga con garbo la potenza varietale con il nervosismo e la freschezza del genere.
I profumi sono davvero inebrianti e il sorso è goloso e beverino. Lo vediamo bene per aperitivo ma dà il meglio di sé accompagnando piatti di pesce, anche zuppe sofisticate. Cantine San Marzano – con questo prodotto ma anche con altri, come lo splendido Sessantanni – si candida a modello per le cooperative di produttori del sud, troppo spesso distratte dal altri obiettivi che non siano quelli qualitativi. Apostrofo rosa.
Conosciamo questa cantina già da qualche anno, allorquando amici sul territorio ce la presentarono con enfasi.
Lo stile di produzione non si discosta nel risultato a quelle di altre ottime aziende salentine, tuttavia la segnaliamo per la floridezza di alcune idee tradotte con brio nel calice e l’ambizione di migliorarsi ancora.
Alle cantine PaoloLeo hanno capito che è imprescindibile guardare al futuro, senza per questo perdere il vista il passato: è l’approccio giusto che caratterizza la fortuna di molte aziende presenti in territori dalla grande tradizione vitivinicola.
Numen 2015 è uno chardonnay in purezza, ottenuto da uve strozzate “con il giro del picciolo”, tecnica simile a quella per la produzione del Torcolato.
La ragione di questo sistema è nell’esigenza di procedere a una vendemmia anticipata pur garantendo una buona presenza alcolica: a queste latitudini è difficile associare acidità e alcol con buoni risultati, senza inventarsi qualcosa.
Dorato e splendente, propone aromi vanigliati ma contenuti, gusto appagante. Fermenta in barrique di rovere francese, riutilizzate poi per la produzione di rossi, è un ottimo compagno per un tagliere di formaggi. Vino del sole.
Passo del Cardinale 2014. Uno dei Primitivo più noti dell’azienda: il profilo olfattivo vanigliato è più intenso rispetto al Numen, dal quale “eredita” le botti nelle quali matura. Classicamente goloso e tridimensionale, ci ha sorpreso per una insospettabile facilità di beva. Strutturato e internazionale.
Questa azienda torna sulla nostra strada, e nei nostri calici, confermando quanto di buono ci aveva fatto assaggiare al primo incontro.
Palmento Costanzo nasce partendo da un progetto di restaurazione di un vecchio caseggiato sull’Etna, risalente alla metà del diciannovesimo secolo.
Nulla è stato lasciato al caso e gli architetti hanno riprodotto fedelmente il processo di produzione vinicola tradizionale: l’organizzazione della cantina è strettamente legata alla struttura originaria del palmento, a cominciare dalla lavorazione “a caduta” delle uve che dal livello più alto, destinato ad accogliere le uve appena raccolte, vengono pigiate e poste nei tini di fermentazione, fino a giungere quello inferiore dove si trovano le vasche di acciaio e sempre più giù fino alla bottaia, luogo sacro per l’affinamento.
Ci è piaciuto Bianco di Sei 2015, da uve carricante, catarratto e minnella provenienti da vigneti che hanno dagli ottanta ai cento anni. Profumato come un prato in fiore a primavera, ha scatto, intensità, profondità da grande vino. Perfetto per la ricca cucina di pesce siciliana. Surprise.
La Famiglia Orlandini non aveva in mente di produrre vino, impegnata in altri settori imprenditoriali.
Pier Francesco e Ascanio hanno scoperto da poco ai confini della proprietà un antico vigneto denominato Argena, situato nel cuore dei boschi tra il Castello del Calcione ed il Castello di Gargonza, in Toscana.
E hanno deciso di reinventarsi produttori vinicoli, recuperando le vigne già presenti, rigenerando il terreno sul quale insistevano e individuando il metodo di vinificazione più adatto.
Argena 2000 è un blend di sangiovese, cabernet sauvignon e petit verdot. Profumo fruttato con lieve accenno vegetale, probabilmente conferitogli proprio dal petit verdot.
Palato syccoso e aristocratico, contraddistinto da struttura varietale rinoscibile. Combinazione non inedita, ma molto ben riuscita. Millenial.
Argena 2001 sembra più maturo del fratellino più grande. Il naso presenta velati e piacevoli sentori ossidati, intrisi di elementi terziari. Balsamico a tratti in modo violento. Pecca in lunghezza, forse, ma gli si può perdonare perché la classe c’è tutta. Adulto vivace.
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