La varietà ampelografica italiana è ormai celebrata in ogni angolo dello Stivale, dagli addetti ai lavori ai semplici appassionati, abbiamo tutte le ragioni per farlo e sono certo che col tempo l’impegno dei tanti produttori che rivalorizzano uve locali porterà alla produzione di vini sempre più buoni e con un’identità sempre più definita.

Ogni regione italiana difende con fierezza la propria autoctonìa perché spesso le uve sono legate alla storia stessa della zona in cui crescono. Certo si potrebbe fare moooolto di più in termini legislativi ed organizzativi, ma non è di questo che intendo parlare, quanto dell’enfasi con cui ogni appassionato parla dei vini della propria regione e della curiosità con la quale guarda agli altri vitigni autoctoni del Belpaese.

Chiedete a un veneto se è più buono lo champagne o il prosecco e state pur certi che nessuno vi dirà di preferire le bollicine d’oltralpe. Provate a leggervi i disciplinari delle doc e docg campane (se avete qualche mese di tempo): non troverete traccia di vitigni internazionali, neanche se chiamate un rabdomante ubriaco.

Bisogna ammettere però che spesso, erroneamente e magari anche inconsciamente, crediamo di essere gli unici custodi di tale patrimonio ampelografico e riduciamo la Francia a sette “miseri” vitigni: cabernet sauvignon e franc, merlot, pinot noir, riesling, sauvignon blanc e chardonnay. Nulla di più sbagliato!

L’autoctonia francese è anch’essa notevolissima e di altissimo livello! Gamay, mourvedre, tannant, chenin blanc, pineau d’aunis, semillon, ugni blanc – solo per citarne qualcuna – sono uve che danno vini di assoluto valore, che nulla hanno da invidiare ai cugini bordolesi, borgognoni e di Champagne.

Il vino che in quest’inizio di 2015 mi sta facendo impazzire è il Muscadet Sevre et Maine, che nulla ha a che vedere col moscato ma è il nome del vino, ottenuto dal vitigno Melon de Bourgogne.

La zona di produzione è Pays Nantais, situata a ovest della Loira e rinfrescata dalla vicinanza all’Oceano Atlantico. La notorietà del Muscadet è dovuta principalmente alla sua predilezione ad accompagnare crudité di crostacei e una sua caratteristica è la vinificazione “sur lie”: il vino infatti dopo la fermentazione che avviene in cemento, viene lasciato riposare sulle fecce fino al momento dell’imbottigliamento.

Il Muscadet 2011 di Domaine de l’Ecu, chiamato Orthogneiss per via della prevalenza di gneiss nel suolo dei vecchi vigneti cinquantenari, colpisce per l’immediatezza della beva, abbinata a una pulizia stilistica che rende i profumi netti ed equilibrati.

L’ingresso in bocca non è prepotente né tagliente, ma all’assaggio il vino si mostra ben più pungente e nel calice rimbalzano in perfetta armonia note di pompelmo, menta, gesso, frutta acerba, pera, ananas, anice e lievi terziari eterei di vernice.

Sullo sfondo si distinguono piacevoli carezze floreali di iris e veronica (no, non sono un fioraio e non ho vissuto in campagna fino a trent’anni, è che per pura coincidenza li ho regalati a mia moglie la settimana scorsa e ne ho scoperto il profumo!). Chiude l’assaggio un ritorno retronasale di liquirizia, il tutto a giovamento della PAI.

Il movimento Triple “A”: Agricoltori Artigiani Artisti
Questo muscadet non ha una grande profondità, a beneficio invece di maggior immediatezza e limpidezza dei profumi, ma di certo è un vino dalla forte e precisa identità, caratteristica necessaria a far emergere i vitigni meno conosciuti. In tal senso la strada intrapresa dai produttori italiani è quella giusta e nei prossimi anni potrà solo regalarci piacevoli conferme e inaspettate scoperte. Viva l’autoctonìa!!!