Uno dei miei “Maestri” un giorno disse una cosa a proposito del Pinot nero che non ho più dimenticato: o si odia o si ama. Oggi posso dire di amarlo ma allora, stiamo parlando di diversi anni fa, non lo capivo: impazzivo per i Chianti e gli Amarone, vini che, oggi, non riuscirei a bere con letizia, salvo rare eccezioni.
Tempo fa ho partecipato a una degustazione di cinque pinot nero, organizzata dal “Maestro” di cui sopra nella enoteca di cui è titolare, in zona Corso Buenos Aires, a Milano.
I cinque prescelti erano, in ordine di degustazione:
1) Domaine Bruno Clair “Les Veroilles” Chambolle Musigny 2009
2) Domaine Trapet père & fils Gevrey Chambertin 2009
3) Domaine Gros frère et soeur Vosne Romanée 2009
4) Domaine Hospice de Beaune Cuvée Nicolas Rolin 2007
5) Domaine Antonin Guyon Bressandes Corton Grand Cru 2005
La platea è in giusto numero e competente, ci sono tutti i presupposti per una bella serata.
Iniziamo con un po’ di storia, indispensabile per capire a fondo il territorio: i vigneti della Borgogna si allungano per circa 250 chilometri tra lo Chablis a nord (città di Auxerre) ed il Màconnais a sud (città di Màcon), ai confini della Valle del Rodano. Da un punto di vista enografico, la Borgogna si divide in cinque aeree: Chablis, la Cote d’Or (divisa a sua volta in Cote de Nuits e Cote de Beaune), Cote Chalonnaise, la Cote Maconnaise, il Beaujolais.
Contrariamente a quanto si può notare in Bordeaux, ove ad ogni Chateau corrispondono molti ettari vitati, in Borgogna assistiamo a una importante parcellizzazione, in un contesto ove la media per produttore è di circa otto ettari.
La frammentazione è figlia dell’esproprio e relativa redistribuzione ad opera di Napoleone alle proprietà ecclesiastiche; il risultato è un vasto numero di piccoli Domaine, il cui prodotto può risultare molto diverso, persino tra produttori adiacenti, o anche tra medesimi Cru. La vinificazione può variare ma l’approccio con il legno è tradizionalmente uno solo: barriques, o per meglio dire “pièce”, di passaggio variabile.
Riprendendo i temi della Rivoluzione francese, la Borgogna, con i suoi vini, si può considerare il Terzo Stato, la borghesia che avanza; Bordeaux ricorda più l’aristocrazia, il vino per eccellenza. Champagne è senz’altro il Clero, non fosse per altro per le origini legate al benedettino Dom Pérignon.
Oggi il pianeta vino a Bordeaux è quasi completamente in mano alle multinazionali ed ha indubbiamente perso un po’ del fascino e della identità che contraddistingue la zona; a Dijon e dintorni questo non è ancora accaduto e forse non accadrà mai, perché difficilmente una multinazionale potrà accaparrarsi grosse fette di territorio così frazionate.
Napoleone senza saperlo ha difeso l’identità del vino francese dalla globalizzazione e ne ha dato un’impronta di qualità assoluta; già, perché il criterio valutativo dei vini di Borgogna è quello che realmente sposa la Scuola francese: non si premia lo Chateau, come avviene nella nota “Classificazione del 1855” di Bordeaux, bensì la regione, il villaggio fino al Cru, la porzione di territorio, la “piastrella” che per volere della Natura ed incrocio di circostanze è in grado di fornire uve che, lavorate sapientemente, daranno vini superbi.
Basta chiacchiere. Passiamo al calice.
Tra quelle di Borgona, Chambolle Musigny è la denominazione considerata “femmina”, la più morbida, la più elegante, la più fine. Il mio calice parla di un vino rubino luminoso, permeabile ed invitante; il naso è di rosa, piccoli frutti rossi, leggermente animale e speziato, con note di pepe bianco. Anche il naso è invitante, eccome!
Bevendone un sorso si comprende subito perché si dica che Chambolle Musigny sia “femmina”: pur mantenendo un buon approccio pseudo-calorico “Les Veroilles” bacia le papille con eleganza e finezza, in ottima corrispondenza gustolfattiva, il tannino non è preponderante, freschezza sferzante e la mineralità è delicata e ben percepibile. Finale lungo, con ritorno fruttato e suadente. Grande vino.
A Gevrey Chambertin, a nord della Cote d’Or, il suolo è calcareo, sassoso, ricco di ferro e da sempre queste caratteristiche donano ai vini intensità e colore; i pinot noir della denominazione inoltre risentono favorevolmente delle escursioni termiche garantite presenti in zona, che favoriscono la complessità olfattiva.
Trapet è considerato il vinificatore della tradizione; l’esame visivo denota un rosso rubino intenso tendente al granato e tuttavia permeabile; consistente.
Al naso la linearità del frutto è evidente, con note di ribes, more, lampone maturo, inizialmente si denota il classico “merde de poulle” che tende a svanire alle successive olfazioni, poi cacao, spezie. In bocca si presenta pieno e carnoso, con un tannino decisamente vegetale che può far pensare alla pigiatura, in vinificazione, con i raspi oppure a vinaccioli più grossi. La freschezza è ben apprezzabile e la sapidità ben duetta con la morbidezza, sovrastandola quanto basta. Corrispondenza gusto olfattiva pressoché perfetta e finale lungo.
Vosne Romanée è la più piccola tra le prestigiose denominazioni della Cote D’Or, con 225 ettari coltivati a pinot noir e ben 6 Grand Cru, tra i più celebri del pianeta. Vini solitamente contraddistinti da grande morbidezza, tannini non esuberanti e acidità moderata. Il suolo calcareo dona sapidità espressiva e in molti casi importanti longevità.
Nel calice si presenta rubino, consistente e concentrato; al naso è floreale, di frutta matura, speziato ed etereo: pot-pourri, ribes, cacao, note di pelliccia. In bocca è già più morbido che spigoloso ma sapido. Tannino levigato e poco aggressivo, si percepisce l’uso di un legno più invasivo e al gusto risente di un difetto di persistenza. Tra quelli bevuti oggi, è il pinot noir meno borgognone.
La storia di Hospice de Beaune merita di essere raccontata: l’Hospice nasce nel 1441 per dare assistenza gratuita a malati ed indigenti, per volontà del Duca di Borgogna Nicolas Rolin; i circa 60 ettari di vigne dell’Hospice provengono da donazioni di ricchi proprietari terrieri dell’epoca, quando alla morte degli stessi, era consuetudine donare alle opere caritatevoli fino a un sesto dei terreni vitati. Oggi l’Hospices è un museo tra i più visitati al mondo ma prosegue nella attività di assistenza ai bisognosi; tali attività sono finanziate, tra l’altro, dalla vendita all’asta dei vini ottenuti dalla proprietà, effettuata ogni terza domenica di novembre sin dal 1851. Il vino viene venduto in botte e l’asta è anche aperta ai privati.
Vi anticipo subito che questo vino è quello che più ho gradito, pur trattandosi di un pinot noir del 2007, anno non felicissimo in Cote d’Or.
Limpido rosso rubino, luminoso e permeabile, bella consistenza; alla rotazione si dispone sul calice con grazia. Al naso apprezzo una ampiezza fatta di viole, piccoli frutti rossi integri, definiti, carnosi, leggera speziatura di pepe bianco, note boisé fuse ad un lieve terziario, terra bagnata e muschio. In bocca è abbastanza morbido, ago spostato ancora sul piatto delle durezze, dove tuttavia il tannino è setoso, vellutato, centrato, ben accompagnato da una percepibile, ammaliante sapidità. Intenso e persistente, finale lungo e soddisfacente.
Il Grand Cru Corton è caratterizzato da un terroir particolare di origine marnosa, sormontata da strati di calcare duro: questa composizione, più che al pinot noir, ben si presta alla produzione di chardonnay, per la quale la Cote de Beaune è celebre. I pinot noir ivi prodotti vengono solitamente considerati un gradino sotto rispetto a quelli della Cote de Nuits, con caratteristiche di maggiore morbidezza e bevibilità.
Il 2005 è un anno di assoluto pregio per tutta la Cote d’Or e nutro molte aspettative quando inizio a considerare il calice di Corton che mi viene proposto. Rosso granato, consistente; frutta in confettura, speziatura importante, etereo: prugne secche, ribes, ancora pot-pourri, cioccolato, pepe bianco. Naso complesso ma non ampio. Al gusto le morbidezze sovrastano le durezze, approccio soft e progressione che si interrompe, tuttavia, dopo pochi secondi. Alcol elegante, tannino ammorbidito e leggermente fuori spartito, freschezza e sapidità non più vigorose. Il mio lapidario commento sul quaderno è “gli manca qualcosa”.