Anche se a Milano ha riservato qualche scroscio d’acqua, è proprio ufficiale: l’estate 2018 è arrivata, in tutta la sua calda espansività! E dite, confessatevi: cosa beve un appassionato winelover in estate? Bollicine, naturalmente! Gowine lo sa bene e così mercoledì scorso ha organizzato una degustazione all’Hotel Michelangelo di Milano, ormai sede consolidata in città per le iniziative dell’associazione albese.
L’evento si è distinto per due filoni portanti: una parte dedicato agli spumanti di Veneto e Friuli e una al Moscato Wine Festival, una passerella molto completa sulla quale si è esibito il moscato nei suoi innumerevoli abiti.
Abbiamo iniziato con le bollicine di Bellaguardia: quelle del 2011 Pas dosé, durello e pinot bianco, 48 mesi sui lieviti. Buono, fine senza dubbio, ma per il mio gusto gli manca un po’ di struttura, che invece c’è nel 2010 Extrabrut, 60 mesi sui lieviti, medesimo blend. Maggiore personalità e complessità, sorso più citrino, molto buono davvero.
Subito dopo… Moscato time! L’occasione richiede qualche considerazione preliminare. Il Moscato è una famiglia di uve per cui sarebbe più corretto dire “i Moscato” anziché “il Moscato”. Di questa grande famiglia fanno parte sia uve bianche che nere. La più diffusa è senz’altro il Moscato bianco, che occupa il quarto posto tra le uve bianche più coltivate nel nostro Paese, seguita dal celebre Zibibbo , il Moscato d’Alessandria, l’uva del passito di Pantelleria. Altri Moscato sono presenti in Italia, alcuni molto noti, come il Moscato di Scanzo, altri meno come il Moscato d’Amburgo.
Da sempre associato all’Asti DOCG, il vino Moscato si porta sulle spalle la tendenziosa fama di vino esclusivo per le feste. Una prima mossa è stata quella di introdurre l’Asti Secco, il cui esordio lo scorso inverno non è stato brillantissimo in termini di vendite. Eppure il Moscato ha una storia antica e gode di una versatilità che solo di recente è stata sfruttata. Tra i tanti assaggi segnaliamo il Moscato giallo di de Tarczal: nei moscato secchi è facile rilevare una distonia tra sensazioni olfattive e gustative. In questo vino no: le peculiarità aromatiche sono certamente ancora percepibili ma sono integrate in un corredo olfattivo ampio, corroborato da gusto secco ben armonizzato.
La grande sorpresa del banco è stata l’Associazione dei produttori del Moscatello di Taggia e i suoi vini: alzi la mano chi li conosce! Il Moscatello di Taggia è un vitigno autoctono conosciuto già dall’alto Medioevo, in seguito menzionato da documentazione pontificia dalla quale si evince l’alto gradimento persino da parte dei papi. A partire dal 1700 il Moscatello esce dai radar della produzione vinicola ligure, per gli stessi motivi che hanno rivoluzionato la geografia ampelografica nel nostro Paese, vale dire fillossera e impiego di altre colture giudicate più redditizie.
Nei primi anni 2000 un gruppo di produttori ha iniziato sul territorio del Ponente ligure la ricerca delle barbatelle che potessero essere di Moscatello di Taggia, fino a trovarne una sessantina, un piccolo tesoro utilizzato per ridare slancio al vino perduto, in collaborazione l’università di Torino e il CNR di Grugliasco. Oggi l’associazione conta 15 produttori, per una produzione limitata orientata al vino secco, ma anche vendemmia tardiva e passito. Ne abbiamo provato qualcuno, con grande curiosità.
Il Moscatello 2017 Lagazio, è di un bel paglierino luminoso e profuma di erbe aromatiche e frutta tropicale. Il sorso è di gran sapidità, molto più intenso che all’olfatto. A seguire il Moscatello Calvini, agile sia al naso che in bocca, regala sensazioni marine e agrumate, seguite da un sorso fresco e – anche questo – decisamente sapido.
Chiudiamo con il Moscatello 2017 Anluma firmato dall’azienda Rovebella: naso estremamente dinamico, di non facile interpretazione: salsedine, sale, acetone, menta. Un’esplosione quasi terziaria ma sempre esuberante. Al palato è coerente, preciso nella scansione delle sensazioni, carezzevole nel corpo e sferzante nella salinità che lo caratterizza.