Per chi non lo sapesse, la Campania possiede un patrimonio ampelografico di enormi potenzialità, con un numero notevole di vitigni autoctoni di qualità. Qualunque libro di storia di enografia nazionale leggiate, ha di certo un un grosso capitolo dedicato alla Campania: qui prima i Greci e poi i Romani hanno rispettivamente insediato e rinforzato la civiltà vitivinicola, elevando il vino da mero prodotto di sostentamento ad alimento piacevole e soddisfacente. Le prime denominazioni di origine nascono in Campania, allorquando si usava segnare sul coperchio delle anfore che contenevano i vini più pregiati il tipo di uva, la provenienza e l’anno della vendemmia.

Furore Bianco Fiorduva 2008

Plinio il Vecchio (sempre lui!) ne decantò le lodi, scrivendo, fra l’altro “In verità il vino Greco era così pregiato, che nei banchetti veniva versato solo una volta”, e tutti gli ampelografi del tempo da Virgilio a Catone, da Columella allo stesso Plinio elogiarono l’espressione vinicola campana. La Natura, inoltre (quella con la “N” maiuscola), ha dato una mano alla Campania, donandole caratteristiche orografiche particolari e terreni perlopiù di natura vulcanica, consentendo così alle varietà autoctone di sopravvivere alle patologie della vite del diciannovesimo secolo, anche le più severe. Davanti al flagello della fillossera, tuttavia, anche la Campania dovette pagare dazio e perse parte del proprio patrimonio naturale, scivolando a lungo nel limbo delle produzioni di quantità e destinate al taglio di vini del nord Italia. Dalla seconda metà degli anni ’80 assistiamo, per fortuna, alla ripresa dell’approccio qualitativo smarrito tempo addietro.
Sulla mia tavola campeggia oggi un degno rappresentante dell’eccellenza vitivinicola campana, il Furore Bianco Fiorduva 2008
di Marisa Cuomo, ottenuto da uve surmature di fenile, ginestra e ripoli, provenienti dai Comuni di Furore e limitrofi. Nel mondo dei bianchi italiani, questo vino occupa già da tempo un posto nell’Olimpo. Non è la prima volta che lo provo e sono certo che mi non mi deluderà.
Al calice si presenta giallo dorato, limpido e luminoso: colore invitante che svela subito la maturazione delle uve. Il naso è intenso di albicocca, miele, camomilla, frutti a polpa gialla, accenni di salvia e particolare aromaticità. L’impatto olfattivo è distinto e riconoscibile.
Al gusto è allo stesso tempo rotondo eppure scattante, con schiaffi di intensa sapidità, alcol bene integrato e lunga persistenza. Equilibrio quasi perfetto tra velluto di legno e alcol e tensione minerale. L’apporto del legno al naso è nullo, avvertibile, invece, al gusto. Il sorso è caldo, e ampio, con l’ananas che la fa da padrone e le note di timo e ancora salvia a completare l’assaggio; non ha cedimenti e tuttavia nemmeno particolare evoluzione. In generale l’asticella dell’intensità di tutti i profumi è posta molto in alto, forse un po’ troppo perché si ha la sensazione che ogni sentore abbia voglia di primeggiare sugli altri. Tutto ciò porta il vino ad essere un po’ monocorde, sia pur su un importante spartito minerale.
Rimane un vino dalla fortissima personalità, non contaminato da mode o correnti, come un gruppo rock al primo album, che può esprimersi senza freni non avendo nulla da perdere, non avendo major che premono alle spalle o aspettative da mantenere. Il Fiorduva è il Fiorduva.
78/100
Ha collaborato Gianpaolo Arcobello Varlese.