“Il Vignaiolo FIVI coltiva le sue vigne, imbottiglia il proprio vino, curando personalmente il proprio prodotto. Vende tutto o parte del suo raccolto in bottiglia, sotto la sua responsabilità, con il suo nome e la sua etichetta“
Sembra quasi una filastrocca, o una preghiera, ma è in queste poche parole tratte dal manifesto della Federazione che è racchiuso il segreto che accomuna tutti i vignaioli FIVI, il cui Mercato dei vini è andato in scena come di consueto a Piacenza lo scorso fine settimana.
Questa edizione, l’ottava, non è stata un’edizione qualsiasi, ma quella più grande, con seicento viticoltori. È stata l’edizione dove – più delle precedenti – si è avvertita la grandezza del Mercato, e di conseguenza, quella di FIVI, intesa come Federazione. Con questi numeri, il Mercato diventa il secondo evento in Italia per numero di cantine presenti. Una realtà con cui gli appassionati si confrontano volentieri: nella giornata di sabato il pubblico era già in fila alle 10, un’ora prima dell’apertura dei cancelli. Molto significativo. Alla fine dei due giorni si conteranno 18.500 partecipanti. Wow!
I numeri, dicevamo. Sono tanti seicento vignaioli: noi che seguiamo la manifestazione sin dalle prime edizioni (leggete qui i nostri articoli per la terza edizione e qui per la quarta) abbiamo percepito immediatamente la differenza. Il padiglione fieristico era occupato interamente dai vignaioli e correttamente l’area food, anche questa più grande rispetto agli anni precedenti, è stata spostata nel secondo padiglione.
L’ascesa del Mercato, lo avevamo già scritto – facili profeti – è tuttavia la conseguenza di un movimento inarrestabile, l’adesione a una Federazione che evidentemente convince tanti produttori, li tutela, li promuove. Oggi FIVI conta circa 1200 produttori associati, da tutte le regioni italiane, per un totale di circa 11.000 ettari di vigneto.
Fra i vignaioli con cui abbiamo scambiato qualche chiacchiera sabato scorso non tutti sono entusiasti del boom: qualcuno ha sottolineato come l’apertura a troppi produttori annacqui lo spirito federativo, che essere troppo inclusivi porterà troppe voci diverse all’interno del movimento. Può essere, tuttavia da osservatore esterno, non posso non notare ciò che FIVI fa nei confronti, per esempio, delle istituzioni: numerose e condivisibili sono le istanze che frequentemente Matilde Poggi e il consiglio direttivo inoltrano a Regioni e Ministeri. Come la richiesta, avanzata lo scorso anno, di una deroga per salvare dall’espianto le vigne di almeno trenta anni d’età nelle Denominazioni di Origine, anche se non conformi ai disciplinari: una misura di buon senso, per preservare la biodiversità e la sapienza dei nostri padri e nonni viticoltori. O la lotta alla burocrazia, riconosciuta come nemico acerrimo specie dei piccoli produttori. Tra i temi più recenti trattati da FIVI l’opposizione alla proposta europea di abbassamento dei limiti all’utilizzo del rame in vigna, la cui finalità è encomiabile ma che necessità di una certa gradualità, per non penalizzare i viticoltori, specie quelli che operano in regime biologico.
Due parole sul Mercato vero e proprio: gli organizzatori volontariamente non hanno predisposto una divisione degli spazi per regione o province, auspicando maggiore voglia di provare nuovi vini da parte del pubblico, tendenzialmente predisposto a visitare i desk delle regioni più note. Personalmente non sono convinto che la disposizione random favorisca “gli assaggi casuali” e d’altra parte tale collocazione non è penalizzante se il visitatore si organizza. Da rivedere invece – a mio parere – l’impiego dei carrelli da supermercato: in alcuni momenti era complicato spostarsi da una parte all’altra per via degli ingorghi provocati dai carrelli pieni spesso messi di traverso. Niente di drammatico, certo, ma forse per il futuro si può pensare ad utilizzare carrelli più piccoli e stretti, più… smart.
Qualche segnalazione fra gli assaggi (pochi) che abbiamo fatto: cominciando con le bollicine cremose del Blanc de Blancs di Cavalleri, l’etichetta numericamente più importante per l’azienda di Erbusco. Quasi centotrentamila bottiglie, a cui si aggiungono poco meno di 4.500 magnum: numeri tutt’altro che industriali, ne converrete. Chardonnay 100% proveniente per l’80% dalla vendemmia 2014, per il 20% da vini di riserva 2013, 2012 e 2011. Lo segnaliamo per lo stile impeccabile, la correttezza tecnica, per i profumi gradevoli e il volume carbonico ben ponderato. Una carezza verticale.
Tra i banchi incontriamo una vecchia conoscenza: Armin Kobler. È sempre un piacere misurarsi con lui e provare i suoi vini, ça va sans dire. Mi piace ascoltarlo, perché trasmette passione e contemporaneamente sapienza. Nei suoi discorsi – mai più lunghi del dovuto – può spaziare dalle pratiche in vigna fino alla comunicazione globale del vino, dalla geologia fino alla eno-politica: c’è sempre qualcosa da imparare. Anche dai suoi prodotti si impara qualcosa: a capire cosa sia un merlot dell’Alto Adige, nella sua accezione più classica e affascinante, per esempio. Il Klausner 2012 occorre saperlo ascoltare: ti invita con i profumi di frutta matura, così nitidi che sembra di tuffarsi in un cesto di lamponi. Ti seduce con il sorso leggiadro e rotondo, tipico varietale, ma con tante sfaccettature, a volte indefinibili. Il dinamismo dei buoni vini.
Terza segnalazione a beneficio di Giovanni Ederle, una giovane realtà alle porte di Verona, sulla collina delle Torricelle. Le terre dell’azienda sono di proprietà della famiglia sin dagli anni venti del secolo scorso e diverse sono state le attività che le hanno viste protagoniste. Dal 2005 l’azienda e i vigneti sono stati ristrutturati, dando nuova linfa all’agriturismo. Giovanni impone ai propri vini uno stile asciutto, tutt’altro che piacione o internazionale. Insieme a Simone Roveda, che me lo ha consigliato, provo con piacere tutto ciò che c’è sul banchetto. Sono tutti vini più che interessanti, multiformi, andrebbero valutati con attenzione per coglierne appieno tutte le sfumature. La mia menzione va a Donna Francesca 2014, blend di garganega e chardonnay: un matrimonio ben assortito, dove l’apporto dei vitigni è stato ben ponderato. Il profumo intrigante, inusuale e intenso precede un sorso goloso e sapido, scattante, beverino ma assolutamente di classe. Una sorpresa, un vino da segnare nella propria to drink list, un nome da seguire con attenzione per il futuro.
Con l’ultimo consiglio ci si sposta da est a ovest: un amico che ne capisce molto più di me mi segnala i vini dell’azienda Barbaglia, sita ai piedi del Monte Rosa, a Cavallirio, in una zona – quella del Boca – che ha visto negli ultimi cinquanta anni assottigliarsi gli ettari vitati, fino a rischiare di scomparire. Al banchetto c’è Silvia Barbaglia che ancor prima delle bottiglie ci tiene a mostrare dei campioni rappresentativi del terreno sottostante i vigneti di proprietà, ciottoli di matrice porfirica vulcanica. Le vigne, infatti, insistono all’interno della caldera di un vulcano, condizione che caratterizza – e non poco – i vini prodotti. La filosofia di cantina è semplice: il terroir prima di tutto. Il Boca 2014 che provo ha un pregio indiscutibile: quello di parlare della zona dalla quale proviene. È un vino con una propria narrativa intrinseca, rivela un rilascio graduale delle sensazioni, una mineralità sottesa e costante. Non è tra le annate più potenti, certo, ma a volte un sussurro fa più rumore di uno strillo. Provatelo e fatemi sapere.