Alcuni eventi sono illuminanti occasioni, fari nella notte nel mare magnum vinicolo. L’ultima luce avvistata, in ordine di tempo, è stata quella sprigionata dai vini degustati al Four Seasons di Milano lo scorso 19 novembre in occasione de L’Alto Adige nel bicchiere. Sono bastati pochi assaggi per avere la conferma di quanto sapevamo già: il livello medio qualitativo dei vini della zona è tra i più alti in Italia. Forse del mondo. L’Associazione Vignaioli dell’Alto Adige – Freie Weinbauern Südtirol ha schierato 25 vignaioli, piccolo ma significativo spaccato degli oltre cento associati. Lo sapevamo, lo confermo, ma siamo rimasti lo stesso sorpresi dalla qualità, dalla ricchezza e dalla fedele espressione territoriale dei prodotti presentati. In più, i produttori dell’associazione – più in generale di tutto l’Alto Adige – sono campioni del mondo di sostenibilità e biodiversità.
Quello di Thomas Niedermayr, per esempio, è risultato tra i desk più affollati di tutta la degustazione: è un nome noto tra gli appassionati, un po’ meno al grande pubblico. Perché Thomas produce a San Michele Appiano vini prevalentemente da vitigni PIWI, acronimo di PilzWiderstandsfähige, dal tedesco “resistenti agli attacchi dei funghi”: varietà di vite resistenti alle crittogame e che non necessitano di trattamenti fitosanitari. Potrebbero rappresentare una rivoluzione, se solo non fossero osteggiati, per motivazioni facilmente comprensibili (ma non condivisibili). Vedremo il futuro cosa ci riserverà. Il presente, intanto, passa attraverso il T.N. 14 annata 2016, da uva PIWI Solaris. Naso spiazzante, inizialmente timido e poi addirittura esuberante, leggermente vegetale. Non assomiglia a nulla che abbia bevuto prima, è ovvio. E il sorso è di una bevibilità sopraffina, a tratti divertente. Rientriamo tra i canoni classici con il T.N. 76 Weissburgunder 2014, parzialmente macerato: canoni classici sì ma vino ugualmente straordinario, con i suoi aromi di scorza di mela, erba cedrina, mandorla e gelsomino, con un sorso piacevole e appagante, morbido e verticale allo stesso tempo. Questo presente… ci piace!
Poco più in là troviamo il desk della cantina Ploner, condotta dalla famiglia Tutzer a Marlengo. Ex titolari di una impresa vitivivaistica, Herta ed Erhard Tutzer hanno realizzato il sogno di avviare una cantina e produrre vino di qualità: la resa in vigna è molto bassa circa un grappolo per pianta. Il primo calice è di Exclusiv 2017, sauvignon vinificato in grandi botti di acacia: l’impronta aromatica è caratterizzante, non troppo vegetale ma declinata su sentori di glicine e zagara. Sorso sapido, completo e corrispondente. Finale molto lungo. Subito dopo proviamo il Riesling 2017, renano affinato sur lie di buona intensità e complessità olfattiva, e dal palato dinamico. Non scimmiotta gli alsaziani, ha una propria personalità e non ne ha bisogno.
Last but not least conosciamo Martin Pohl la sua azienda Köfelgut, in quel di Castelbello, in Val Venosta.
La tenuta appartiene alla famiglia Pohl sin dal 1786 e oggi Martin la gestisce insieme a  Elisabeth e ai tre figli Maximilian, Leonhard e Ferdinand. Martin è un tipo estroverso, dalla battuta facile, e durante la nostra chiacchierata strappa spesso un sorriso, aiutato dalla caratteristica cadenza altoatesina.

Il rosé Cuvée 2017 da Pinot nero è sorprendente. Inizialmente scettici, Gabriele e io ci siamo dovuti ricredere: un bel prodotto, dal colore brillante ed elegante, dai profumi intensi ma non troppo, e dallo stile gustativo originale: caratteristiche da vino bianco, con freschezza e sapidità bene in evidenza, ma anche struttura da vino rosso, potente, quasi tannica. Una contraddizione, apparentemente, tuttavia il risultato finale è estremament
e piacevole, poiché le durezze e le morbidezze in questo calice vanno finemente a braccetto. Altro vino, altra sorpresa: il Gewürztraminer 2017 è secco ma non troppo, profumato ma non troppo. Ottenuto da uve surmature, sembra che giochi con astuzia nella zona grigia tra l’aromatico e il verticale. Al naso ha un approccio lieve di miele di castagno, cui seguono i classici sentori varietali di rosa e litchi, pepe bianco e zagara. Al gusto ha temperamento, senza mai logorare il palato con i tratti a volte banali del vitigno.
Chiudiamo con il Pinot nero 2011: non c’è nulla di un vino di sette anni. Non il colore, ancora brillante su toni rubino; non al naso, dove emergono tocchi di piccola frutta rossa matura e un cesto di spezie, terra e cacao. E certamente non al palato, dove accede con grazia, vigore intatto, senza spigolature né cedimenti. Un’interpretazione classica – se vogliamo – del vitigno, proiettata alla longevità e alla piacevolezza. Bravo Martin.