Repetita juvant è un famoso detto che mi piace mettere in pratica nella lettura degli articoli, ogni volta emergono tra le righe nuove sfumature grammaticali, nuovi significati e si danno diverse interpretazioni. Un po’ come aprire una bottiglia e degustarla nell’arco di una serata: l’ultimo bicchiere sarà di certo diverso dal secondo e ancor più dal primo. Lo stesso calice sarà cangiante nel giro di pochi minuti.
Ecco perché qualche sera fa, quando qualcuno mi nominò Accomasso, tornato a casa mi sono fiondato a rileggere l’intervista che ci rilasciò.
Il Cavaliere Lorenzo Accomasso è un giovanotto del 1934 che fa tutto, ma proprio tutto da solo, dal raccolto all’imbottigliamento. I parenti non ne vogliono sapere di sporcarsi le mani in vigna, e un giorno sì e l’altro pure arriva il magnate di turno ad offrirgli vagonate di milioni per acquistare la sua terra.
Ma è sua, appunto, e non la darà mai a nessuno. Le sue parole sono oro colato per qualsiasi amante del vino, ma ciò che più colpisce ascoltando quel signore che a 83 anni produce dei Barolo ultraterreni è la semplicità disarmante con la quale spiega le cose: all’inevitabile e ormai classica domanda su barolisti tradizionali e moderni le sue parole furono:
“Per me il Barolo moderno non esiste, chi macera per dieci giorni avrà vino pronto tra tre anni, io macero cinquanta giorni ed il vino sarà pronto tra sei o sette anni, tutto qui”
chiosando poi così:
“Bisogna lasciare spazio ai giovani, lasciare che sbaglino, se necessario. Solo così impareranno”
Una risposta che racchiude esperienza,semplicità, insegnamento e un pizzico di giustificatissima arroganza.
Il suo modo di parlare, di saper attendere i tempi senza temere l’incedere del tempo, il suo essere slow insomma si esprime nei suoi vini, da abbinare in religioso silenzio non al cibo, ma a un sano sottofondo di una musica anch’essa senza tempo e senza età, il Blues.
E sul Barolo di un vignaiolo slow nulla ci sta meglio dell’ascolto di un altro slow, Mr. Slowhand, Sua Maestà Eric Clapton, che il Blues lo ha attraversato in lungo e in largo, lo ha stravolto e lo ha riportato alle origini, rimanendo sempre fedele al suo stile.
Difficile citare un album in particolare, ma forse sceglierei l’Unplugged del 1992, forse il suo lavoro più intimo, come il rapporto che quel vecchietto, lassù in Langa, ha con le sue viti.
Dello stesso spessore e profondità di Accomasso, ma di tutt’altra pasta è invece Lino Maga, vulcanico vignaiolo lombardo e padre “costituente” del movimento enologico in Oltrepò pavese, oltre che di uno dei vini più buoni e longevi d’Italia, il Barbacarlo.
A Maga bastano poche frasi per spiegare un concetto complesso. “È la terra che fa il vino” afferma in merito alle vinificazioni, “basterebbe copiare il modello francese e saremmo i primi al mondo…”. Ed ecco che arriva l’insegnamento:
“…imparate ad aprire una bottiglia… perché ci sono fatti culturali e colturali. I vini importanti vanno sboccati. Io sbocco pure l’acqua…”
Lino Maga è un uomo che nella sua vita non ha mai esitato ad andare sempre contro tutto e tutti e non le ha mai mandate a dire, pur di difendere le proprie idee, in particolare quelle legate ai disciplinari dell’Oltrepò. Maga può sembrare scorbutico, ma non è mai banale e sempre diretto, il suo è solo un modo di essere, anzi, a volte non esita a prenderti per il culo e ci scappa anche la risata. Il suo Barbacarlo?
È proprio come Lino, un assemblaggio di Croatina, Uva Rara e Ughetta di enorme personalità, un cavallo di razza, unico, rustico e succoso, da bere ascoltando del Blues altrettanto tosto, come la voce perennemente incazzata di John Fogerty, leader dei Creedence Clearwater Revival. Il loro album omonimo è un piccolo capolavoro senza tempo, che affonda le radici negli albori del blues e tende i rami al rock del nostro millennio.
E cosa dire di Josko Gravner che non sia già stato scritto o citato? Ha praticamente reinventato il vino e lo ha fatto reinventando se stesso: invaghito delle nuove tecnologie il giovane Josko convinse il padre ad acquistare macchinari moderni per la cantina.
Poi, pian piano, maturò l’idea che cinquemila anni di storia del vino non potevano essere cancellati dagli ultimi decenni. Cominciarono così i viaggi in Caucaso e l’uso delle anfore, un maniacale rispetto per l’ecosistema della vigna, la meticolosa attenzione alle fasi lunari come riferimento per le vendemmie, macerazioni e vinificazioni lunghissime. Ha persino inventato dei calici adatti a bere il suo vino.
Gravner ha riscritto il concetto stesso di viticoltore. Chi lo ha sentito parlare o ha anche solo letto qualcosa di lui, ha certamente notato la sua estrema umiltà: emblematica e famosa la sua frase “C’è chi dice che sono un genio, ma io mi sento un semplice contadino”.
A parte che, personalmente, mi verrebbe di invertire questa sua affermazione, Gravner ama invece ricordare un aneddoto di quando era ragazzo: una grandinata devastò quasi tutto il raccolto e lui guardava tale scempio dalla finestra di casa, con gli occhi lucidi. Gli si avvicinò lo zio Franc e gli disse:
“Josko, la natura ci dà tutto, ogni tanto è giusto che riprenda qualcosa”
I suoi non sono vini, sono esperienze: dimenticate qualsiasi vocabolo imparato prima sulla degustazione, quando li proverete scoprirete profumi e sensazioni che mai avete sentito prima. Che li chiamiate macerati, in anfora o orange wine, il partner ideale per i bianchi friulani di Gravner è senza alcun dubbio la magica chitarra di JJ Cale, un artista che è stato ed è tuttora il riferimento per tutti i più grandi bluesman della storia.
Il suo LIVE, raccolta di varie esibizioni in teatro dal suo tour del 2001, vi rimarrà dentro ore, giorni, mesi dopo l’ascolto. Un album da meditazione per vini da meditazione: l’appagamento totale dei cinque sensi.
“Esiste il blues, amico mio, solo il blues.
Il blues si veste come gli pare ma è sempre blues, il padre d’ogni emozione,
d’ogni sentimento, d’ogni sensazione”
(Massimo Paudice, poeta)