La notizia è dello scorso aprile e ha fatto rapidamente il giro dell’enomondo: Angelo Gaja e Alberto Graci hanno fondato una società,
la Konis, e acquisito ventuno ettari di terreno, suddivisi in due contrade nel territorio di Biancavilla, sul versante sud-ovest dell’Etna.
Sembra – i dettagli sono ancora avvolti da riservatezza – che quindici ettari siano già coltivati a nerello mascalese e che siano in programma altre acquisizioni nel comprensorio etneo.
Sappiamo tutti che quando Angelo Gaja si muove fa sempre rumore: fuori dal natio Piemonte ha investito solo in Toscana (Pieve Santa Restituta e Ca’ Marcanda) con ottimi risultati. Genera curiosità sapere che a 77 anni ha deciso di lanciarsi in un’avventura tutta nuova, parecchio lontana dai vigneti di Barbaresco che lo hanno reso celebre.
Facili profeti
In attesa di sapere quando potremo bere i vini di Konis, si può certo fare una riflessione: Gaja è un gigante dell’enologia, un esempio e un riferimento per il mercato mondiale. Ogni sua mossa è studiata e spesso imitata: la decisione di unire le proprie forze a quelle di Graci – azienda in ascesa e che possiede già una propria storia – non fa altro che consacrare quello che fino a pochi mesi fa si diceva, magari a bassa voce, negli eno-salotti, nelle sale stampa degli eventi e alle degustazioni: il futuro del territorio etneo è grandioso.
Già nel novembre del 2014 scrissi:
Il livello qualitativo dei vini etnei ha raggiunto soglie impensabili fino a qualche decennio fa, in grado di generare l’interesse non solo dei consumatori ma anche quello dei winemaker di tutto il mondo, che sempre più frequentemente giungono alle pendici della Muntagna […] per sfruttarne il grande potenziale. Negli ultimi venti anni nessuna zona – ribadisco nessuna – in Italia ha avuto uno scatto di merito come quella etnea, in grado di coniugare tradizione, territorio ed evoluzione tecnica, indirizzandosi ad una produzione fiera e soprattutto riconoscibile.
Fui facile profeta, certo. Ma oggi la discesa in campo di Gaja certifica le potenzialità del territorio, tenendo inoltre presente un fattore: i terreni acquisiti si trovano sul versante sud-ovest del vulcano, quello che fino a oggi era considerato meno prestigioso. La scelta di Konis potrebbe quindi, sparigliare le carte.
Perché l’Etna
Perché, allora, il territorio etneo è così ambito? Cosa ha spinto Gaja e altri prima di lui a investirvi? E perché proprio ora? Cosa ha trasformato l’Etna nel nuovo Eldorado? Patrimonio dell’Unesco dal 2013, a ‘Muntagna è il vulcano più alto d’Europa, raggiungendo i 3.343 metri e coprendo un’area di oltre 1.250 chilometri quadrati.
Sull’Etna si fa vino da sempre: alcuni scavi hanno permesso di ritrovare tracce di vite selvatica risalente al 5000 a.C. Furono però i Greci, dall’800 al 500 a.C. i primi a impiantare la vitis vinifera e a esportare i fondamenti della viticoltura e le tecniche di vinificazione, tanto che i vini etnei giunsero alla dominazione romana, fino al 533 d.C., con la prestigiosa fama di migliori in assoluto.
Dopo il periodo di dominazione araba, la viticoltura riprese forza già con gli Spagnoli: tra il diciottesimo e diciannovesimo secolo, la fama dei vini dell’Etna raggiunge tutta l’Europa. È il periodo in cui si formano le strutture di vinificazione che ancora oggi è possibile visitare, munite di palmento, costruito in pietra lavica e solitamente posto ad altezza superiore rispetto al locale dove il mosto veniva conservato, in attesa di diventare vino.
La società delle contrade in questo periodo è enocentrica: la collettività ruotava attorno alle cantine, gestite quasi sempre a conduzione familiare e la vendemmia era un’occasione di festa e di tradizioni da rinnovare. Non bisogna dimenticare che i Greci avevano esportato il culto di Dioniso, che il passare dei secoli e delle religioni aveva solo sbiadito: il vino era comunque sempre rimasto protagonista nella cultura etnea.
Alla fine del diciannovesimo secolo sull’Etna si coltivava vite in cinquantamila ettari: nel 1881 fu istituita la Scuola Enologica e nel 1886 l’Ufficio Enologico, a tutela e controllo dei vini prodotti. L’ascesa del fenomeno vino si interruppe con l’arrivo della fillossera, ai primi del ‘900. In più nuovi balzelli introdotti dal governo disincentivarono la viticoltura: le zone più pianeggianti e quelle più elevate furono impiantate con altre coltivazioni.
Tradizionalmente le aree destinate alla viticoltura sono tre:
- il versante est (Comuni di Giarre, Mascali, Milo, S. Alfio, S. Venerina, Trecastagni, Viagrande e Zafferana), tra i 400 e i 900 metri sul livello del mare;
- il versante nord (Comuni di Piedimonte Etneo, Linguaglossa, Randazzo e Castiglione di Sicilia), compreso tra i 400 e gli 800 metri, giudicato il più pregiato e contraddistinto da maggiore parcellizzazione;
- il versante sud (Comuni di Biancavilla, Santa Maria di Licodia), dove si trovano impianti anche sopra i 1000 metri.
Il territorio etneo è variegato sia nel clima che nella composizione geologica: ogni versante ha un proprio terroir, unico e caratterizzante. La composizione del terreno è di origine vulcanica, ma non è uniforme: questo dipende dalla fase di sgretolamento di uno o più tipi di lava, formatasi in tempi differenti, nonché dalla presenza di lapilli e ceneri. L’escursione termica è sempre forte, a tutto beneficio delle uve che si impreziosiscono di sostanze profumate.
C’è anche un’altra considerazione che spiega la corsa all’Etna. Negli ultimi anni è entrata in gioco un’altra variabile: i cambiamenti climatici. Come abbiamo visto, il surriscaldamento globale ridisegnerà la geografia dei vigneti su tutto il pianeta e l’altitudine degli impianti giocherà un ruolo decisivo: i vigneti sull’Etna si trovano spesso a elevate altitudini e ciò rappresenta un vantaggio che in Italia hanno pochi altri.
Parla il calice
I vitigni più presenti supra a ‘Muntagna sono il nerello mascalese, il nerello cappuccio, il carricante, il catarratto e la minnella.
È presente anche il mondeuse, giunto per errore quaranta anni fa al posto di alcune barbatelle di pinot nero e felicemente stabilitosi sul territorio.
Il nerello mascalese è protagonista indiscusso della DOC Etna, la prima denominazione siciliana, datata 1968: a maturazione tardiva, come tutti i vitigni etnei, dà vini diversi in relazione al terroir di provenienza. Al nerello mascalese si associa spesso il pinot nero: i due vitigni hanno in effetti qualche affinità. Sono i gli unici due vitigni al mondo in cui mancano gli antociani acilati, per esempio, ed entrambi hanno difficoltà di ambientamento nei luoghi che non sono quelli di elezione. I vini di nerello mascalese sono di grande finezza olfattiva e gustativa: giocano spesso sulle sfumature più che sulla potenza, proprio come il mercato attualmente richiede.
Tra i vitigni bianchi, il carricante interpreta il ruolo che in nerello mascalese ha tra i rossi: autoctono etneo, raramente si trova al di fuori di tale aerea. Costituisce la base principale della DOC Etna Bianco e dona vini con eleganti profumi di frutta a polpa bianca frequentemente intrisi da vena minerale. Sapidi e scattanti, sono vini in grado di sfidare il tempo e di grande versatilità.
Etna is the way
Bere un Benanti, o un Pietradolce – tanto per fare due nomi a caso – vi farà capire bene perché c’è molta attenzione per i vini etnei, più che qualunque articolo per quanto ben fatto e approfondito. Nel calice c’è la verità, lo sosteniamo sempre: la qualità dei vini da Muntagna è sotto gli occhi di tutti e non si deve più temere di scomodare le zone più celebri del mondo per fare dei paragoni.
Una conferma, se ma ce ne fosse bisogno, arriva dai Tre Bicchieri Gambero Rosso 2018. Su ventidue premiati ben 9 vini provengono dal territorio etneo e arricchiscono un generale consolidamento di tutta la Sicilia, cui va riconosciuta lungimiranza e conoscenza tecnica.
Questa stagione – statene certi – sarà quella della consacrazione: l’Etna prenderà il volo!
Buon vino a tutti!