“Quant’è bella giovinezza, Che si fugge tuttavia! Chi vuol esser lieto, sia: di doman non c’è certezza”.
Sono passati più di cinquecento anni da quando Lorenzo de’ Medici scrisse queste parole, e ad oggi non credo esistano frasi che descrivano così lucidamente la gioventù.

Quella frase, guarda caso, era una strofa della “Canzona di Bacco” ma se Lorenzo de’ Medici, personaggio out of time, fosse vissuto nel ventunesimo secolo di sicuro avrebbe amato il rock e forse forse la sua Canzona l’avrebbe chiamata “Canzone Rock” ma il contenuto sarebbe rimasto lo stesso, perché nella musica  spesso l’incoscienza, l’essere acerbi e in un certo senso “puri” e non contaminati da altre influenze ha portato giovani artisti a produrre album eccezionali.

Quante volte abbiamo sentito dire frasi del tipo  “i primi tizio e caio erano grandi poi si sono commercializzati”, “Gli U2 degli anni 80 spaccavano, quelli di oggi fanno le canzoni per i bimbominkia!”. Ecco tutto ciò è spesso vero e difatti non è raro imbattersi in album d’esordio col botto.

Senza andare nel secolo scorso e scomodare i mostri sacri del rock, negli anni ’00 spiccano  i debutti dei Wolfmother col loro omonimo e The Strokes con Is This It, entrambi dal sound retrò ma attualissimo all’ascolto, potenti, cazzuti, senza fronzoli e virtuosismi.

L’alter ego liquido degli Strokes è di certo il Cirò ‘A vita di Francesco De Franco, lontano anni luce da certi mattoni calabresi e invero vicino alle eleganze d’Oltralpe. L’assaggio 2008, annata d’esordio, è qualcosa che difficilmente dimenticherete e vi tornerà in mente come un ritornello che non riuscite più a togliervi dalla testa…


Giovani e già grandi
I Wolfmother al loro esordio furono definiti “una fusione dei Black Sabbath, Mars Volta, Led Zeppelin e White Stripes”. Una grandissima cazzata che forse un po’, loro malgrado, li ha bruciati. Gli album successivi, seppur piacevoli, hanno tradito le enormi aspettative create intorno alla band.

Nel mondo del vino per fortuna ogni annata è diversa dall’altra ma un esordio col botto, e qui la deflagrazione si è avvertita dalla Trinacria al Sudtirol, lo ha fatto Giovanni Ascione, alias Nanni Copé col suo Sabbie di Sopra il Bosco 2008

Uno di quei vini che lo bevi e non riesci a trovare difetti, dove avverti la sapiente mano del suo papà nel dosare percentuali delle uve, scelta dei terreni e selezione delle barrique. Ci trovi acidità, struttura, ventaglio di profumi, bevibilità, Pai, tutto e tutto da un blend tutto autoctono dei campani Pallagrello, Aglianico e Casavecchia, altro che il “francese” Montevetrano…

E a proposito di autoctono, anche il rock nostrano può dire la sua, e sebbene la musicalità della lingua inglese non ha eguali, i nostri artisti non di rado ci regalano dei testi profondi che ti scavano dentro, diventando parte di te, facendoti quasi male.
“…la chiave della felicità è la disobbedienza in sé a quello che non c’è.
Perciò io maledico il modo in cui sono fatto,
il mio modo di morire sano e salvo dove mi attacco,
il mio modo vigliacco di restare sperando che ci sia quello che non c’è…”.
 
E’ un estratto di Quello che non c’è degli Afterhours: parole che ti spogliano di tutto, delle tue paure, delle tue difese, delle tue illusioni, lasciando il cuore scoperto e pulsante. 

E non sono molti i vini che sanno regalare una tale profondità emotiva, vini che nascono, prima che in vigna, nel cuore del produttore, spesso pieno di amarezze, cultura, delusioni e sogni.

Luigi Tecce, viticUltore irpino, è una persona che auguro a tutti di incontrare almeno una volta nella vita. A me è capitato a un Vinitaly: mi spiegò e rispiegò un suo esperimento in anfora come fossi suo figlio, ma se berrete i suoi vini sarà un po’ come conoscerlo perché ci troverete il suo cuore, ricco di arte, orgoglio, sincerità, competenze, un cuore visionario eppur lucidissimo, di un uomo straordinariamente semplice.

 I suoi due immortali aglianico, Poliphemo e Satyricon, sono profondi, austeri, struggenti. Un nettare di umanità.

Chiudo il post con un loop, tornando a parlare di un esordio fragoroso, quello dei Royal Blood, band britannica che ha spaccato col singolo Out of the black, un brano incazzato e spasmodico che ribolle come un ragù che sta pippiando.
L’omonimo album è stato un successo commerciale, apprezzato anche da critica e colleghi, addirittura Sua Maestà Jimmy Page ha definito la musica dei Royal Blood “di una qualità tremenda, hanno innalzato il rock di un paio di livelli”.

A nessuno è dato sapere se il duo di Brighton manterrà le promesse, per ora ci godiamo la loro giovane esuberanza, allo stesso modo dello Stella Retica 2011 di Arpepe, un giovanotto di belle speranze ma già estremamente godibile, col tannino energico eppure destinato alla via della seta, basterà avere solo una decina di anni di pazienza…d’altronde, come cantano gli AC/DC “It’s a long way to the top if you wanna Rock ‘n’ Roll!!!”