Serata davvero stimolante al Westin Palace, organizzata da Ais Milano, per la presentazione del libro di Riccardo Cotarella “A passo d’uomo nelle Terre del Vino”, guidati nella degustazione da Francesco Albertini.
Cotarella non ha bisogno di presentazioni, va detto però che suscita riflessioni critiche; talvolta gli si “imputa” di produrre vini di facile beva, pronti sin da giovani, ammorbiditi dal legno, privilegiando gli elementi organolettici del vitigno all’espressività territoriale, con il risultato di avere vini gradevoli, privi di difetti, senza troppa personalità. Ricordiamoci però che questi vini hanno un nome e cognome, definirli “i vini di Cotarella” non rende giustizia né al produttore, né a Cotarella.
Tuttavia il suo
lavoro al Sud ci dimostra come stia contribuendo a valorizzare – elevandone la qualità – vini e vitigni che costituiscono un
patrimonio ampelografico unico al mondo.
Per troppo tempo (tolta qualche perla) ci si è dedicati a produrre “quantità”, per irrobustire e tingere anemici vini del Nord e persino della blasonata Francia, lasciando i produttori del nostro Sud, ancora una volta, a lavorare senza ottenere alcun riconoscimento o prestigio.
Vale la pena quindi allungare lo sguardo sullo scenario socio-culturale che ruota attorno a quei vini: la qualità ha bisogno di un’adeguata piattaforma culturale.
Siamo poi sicuri che tutti vogliano e possano bere vini nobili, cari e ricercati? Non si rischia di scivolare nello snobismo? Esiste un target di serie A? Non andrebbe ricollocato, il vino, al portentoso mezzo di comunicazione che lega agli amici, alla buona compagnia, alla tavola?
Ora la parola però passa direttamente a Riccardo Cotarella, al quale abbiamo rivolto alcune domande.
Lei è Presidente della Union Internationale des Oenologues. Quali sono i progetti che spera di realizzare per il futuro del settore? Quanto è importante lavorare con colleghi stranieri?
Il dialogo, il confronto, la verifica della validità delle proprie scelte sono propedeutici a qualsiasi tipo di ricerca. Nessuno di noi ha la verità in tasca. Se così fosse, sarebbe la fine della scienza. A Einstein è stata riconosciuta la validità delle sue tesi sulle onde gravitazionali, a un secolo dalla morte.
I progetti, all’interno dell’Unione, vanno inquadrati in questa filosofia. Alcuni assumono caratteri di urgenza rispetto ad altri, e questo è spesso determinato dagli interventi politici dei vari Stati, che non di rado trascurano di valutare riflessi e conseguenze sul mondo del vino. Che, per l’Italia, è una delle “voci” principe del nostro export.
Un solo esempio: è in atto l’accorpamento dei piccoli comuni. Il che significa che perderanno autonomia Barolo e Barbaresco – tanto per citare i più noti – con inevitabili conseguenze ed equivoci per quanto riguarda le denominazioni d’origine.
EXPO 2015, lei è stato Presidente del Comitato scientifico per l’allestimento del padiglione del vino italiano. Come giudica il lavoro fatto e soprattutto quali frutti darà?
E’ una domanda direi retorica. Il mio riconoscimento per i risultati raggiunti può apparire scontato, visto il ruolo che ho ricoperto. E invece è un omaggio convinto e sincero a quanti hanno operato per accreditare nel mondo i nostri vini e le nostre cantine.
C’è stato spazio per tutti, anche per i piccoli produttori, sempre che abbiano fatto squadra, per offrire un’immagine compiuta e stimolante sia del loro territorio, sia dei vini. I risultati dell’Expo si vedranno nel tempo. Tutto quello che si svolge in estensione, richiede poi di mettere radici.
Quando si diventa un personaggio famoso come lei, si è indubbiamente più vulnerabili e esposti alle critiche. Legge tutto quello che viene scritto su di lei? Come reagisce? Le è mai capitato, dopo aver ascoltato o letto qualcosa, di cambiare idea su alcune sue posizioni?
Nei limiti del possibile, seguo un’aggiornata rassegna stampa sul mio lavoro. E vi confesso che sono più attento alle critiche – non sono poi molte, in verità – che agli elogi. Circa il fatto di cambiare idea, bisogna intendersi.
Un nuovo vino nasce da un progetto maturato a lungo e portato avanti attraverso una serie di verifiche. Nessun enologo che si rispetti, s’innamora delle proprie idee. Capita anzi di dover spesso raddrizzare il tiro e inquadrare meglio l’obiettivo. Per cui, chi propone soluzioni miracolistiche, non sa o non tiene conto di quanto sia stato già sperimentato.
Questa sera abbiamo assaggiato in prevalenza vini ottenuti da vitigni autoctoni: Gaglioppo, Primitivo, Nero di Troia, Aglianico, tuttavia qualcuno le rimprovera una preferenza per i vitigni internazionali. Davvero è così? Al Sud potrebbe giovare la loro presenza?
Chi mi conosce – e credo che ormai siano in tanti – sa bene quanto mi stiano a cuore i grandi autoctoni del Sud. Direi di più. Continuano ad affascinarmi per le loro potenzialità, troppo a lungo trascurate.
Le mie consulenze nel Sannio, in Puglia, nel Salento, fino alle falde dell’Etna, stanno a dimostrare quanto rispetto e quale coinvolgimento ho con le uve di quelle terre. Il ricorso ai vitigni internazionali, e quindi agli uvaggi, nasce solo da sicure esigenze e non è di certo da una mia facile tendenza.
Esistono nel nostro Paese alcuni territori (pochissimi per fortuna) nei quali pur evidenziando solo da qualche decennio delle notevole potenzialità, non sono mai stati destinati prima alla produzione di uva da vino di qualità, Bolgheri per esempio… Ebbene qualora questi siti mostrano una naturale positiva predisposizione a ospitare i cosiddetti vitigni internazionali piuttosto che vitigni nostrani allora, non esistono per le aziende alternative alla scelta che più assicura il raggiungimento dei loro obiettivi.
Circa la presenza al Sud di vitigni internazionali, è stata registrata in termini anche troppo generosi, negli anni Ottanta. Credo che possa bastare. Le regioni meridionali sono una miniera di autoctoni, qualche volta addirittura su piede franco.
So che glielo chiedono con frequenza ma devo farlo, i lettori di Appunti di degustazione non mi perdonerebbero se non le facessi questa domanda. Cosa risponde a chi le contesta un uso spregiudicato del legno?
La barrique oggi è diventata di moda. E questo, come per ogni fenomeno, ha portato a qualche inevitabile eccesso. A utilizzare per primo il legno, è stato Giacomo Tachis (il grande enologo appena scomparso), che sfruttò gli umori della barrique per la nascita del suo Sassicaia. E da allora, l’uso non ha avuto più confini.
Per quanto mi riguarda, credo di avere con il legno un rapporto quanto mai controllato e soprattutto critico. Ogni tipologia di barrique ha propri caratteri, e il legno una sua chimica, che rilascia determinati umori in tempi tutti da verificare. Per cui una barrique va bene per un vino e non per un altro. L’idea che basti quella magica botticella per nobilitare un vino, è pura utopia.
Così va ricercato (cosa non facile, per i tentativi che impone) il legno giusto, per poi valutare l’utilizzo della barrique vergine o quella di seconda o terzo passaggio. Insomma, c’è da far capo a quel “mestiere”, che al di là di qualunque scienza, fa un buon enologo.
Qual è il vino, presente sul mercato, che avrebbe voluto creare? Le capita di bere vini non suoi e dire “Beh, questo sembra fatto da me?” Come sintetizzerebbe il suo stile nei vini che crea?
La domanda è triplice. Provo a rispondere. 1) Il vino di cui vorrei vantare la paternità, è quello ancora da venire. 2) Un vino che si presti a essere attribuito a questo o a quell’enologo, rischia di perdere la propria identità per trasformarsi in un marchio. 3) Lo stile in tutto quello che è legato alla natura, non può mai essere una costante.
Una gelata, un periodo di lunga siccità, una vendemmia prematura, impongono di rivedere qualunque principio e adattarlo alle nuove esigenze.
Attività benefiche. Sono in costante parallelo con il suo lavoro. Ci vuole spiegare il perché di questo impegno e quale significato ha nella sua vita? In particolare vorremmo che ci raccontasse del progetto in Palestina, sia per l’aspetto più squisitamente enologico, sia per gli inevitabili contenuti impliciti.
La Palestina credo non abbia bisogno di parole per spiegare le ragioni del mio coinvolgimento. Purtroppo il clima di guerra permanente che pesa su quei territori, rende a volte difficile anche la mia collaborazione.
L’azienda Cremisan dei Salesiani esiste da 500 anni e ha sempre avuto nel vino la più importante fonte di sostentamento. Territori meravigliosi sfregiati dalla follia umana. Più assidua e produttiva risulta invece quella con la Comunità di San Patrignano, dove l’incremento degli impianti e un’avanzata cantina hanno dato un forte impulso al recupero dei giovani tossicodipendenti, attraverso il lavoro nei vigneti e le fasi di vinificazione.
Il suo sogno nel cassetto?
Mi chiedete di conoscere il mio sogno nel cassetto. Lasciamolo dov’è. Io ho solo il dovere di alimentarlo giorno dopo giorno. Insomma, pagare quel tributo di ansie e di speranze, di fede e di fantasia, che tiene in vita ogni sogno.
Dovremmo parlare ora dei vini assaggiati ma – anche se non di tutti – ne abbiamo parlato in occasione del
Cotarella Day.
I produttori presenti alla serata con i loro vini: La Guardiense, I mille per l’aglianico – Futura14, Raccontami – Coppo,
Pomorosso e Spumante Riserva Coppo – Castello di Cigognola, La Maga – Terrazzedell’Etna, Cirneco – Sardus Pater, Arruga – iGreco, Catà – Falesco, Montiano – Moncaro,
Vigna Novali – Leone De Castris, Per Lui Negramaro – Castello di Volpaia,
Coltassala – Tenuta Coppadoro, Stibadium.
A noi è piaciuto molto di più condividere con i nostri lettori queste riflessioni.
Il dibattito è aperto…
Vincenzo e Anna
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