– Tu dov’eri l’undici settembre?
Mi chiese Barbara all’improvviso, alzando lo sguardo dal suo calice di vino bianco. Non ero particolarmente concentrato e dovetti prendermi un paio di secondi in più per recuperare il ricordo. Le sparai la risposta tutta di un fiato, non sono mai stato un calcolatore e dopotutto sapevo benissimo che al primo appuntamento la spontaneità ha le stesse possibilità di riuscita della convenzionalità, se non di più.
– Ero a Triora, in Liguria, a fare bungee jumping. Un’esperienza indimenticabile. Un salto di centoventi metri. Ma non me la sono goduta.
– Perché? – mi chiese frapponendo il suo vino tra i miei occhi e i suoi.
– Perché quello che successe in America mi privò di tutta l’adrenalina che avevo generato volando.
– Con chi eri?
Cercai di capire lo scopo di quella domanda.
– Con amici. – mentii.
Ci fu un silenzio che mi sembrò lunghissimo. E carico. Se in quel wine bar in quel momento ci fosse della musica, io non saprei dirlo.
– Cosa bevi? – le chiesi.
– Un erbaluce. Sai cos’è? – i suoi occhi marroni si illuminarono.
– Ma certo! – risposi con un’espressione che placidamente confessava tutt’altro. Mi sporsi in avanti fino a percepire il suo profumo. Di Barbara, non del vino.
– È un vitigno piemontese, non troppo conosciuto. Il vino è come le persone, può avere dei difetti ma non per questo si deve giudicare male, basta saperlo interpretare, indovinarne l’essenza – e terminò con un sorriso che sembrava provenire dall’origine della luce.
Il vino non mi piacque mai come in quel momento. Soprattutto l’erbaluce, anche se non lo stavo bevendo. E tornai a sentire la musica.
– Sembri un’intenditrice.
– Non esageriamo! – sbottò ritraendosi sullo sgabello in legno – Sono solo un’appassionata. Anzi, fammi provare il tuo vino.
Io avevo scelto un Chianti, il primo nome rassicurante che avevo scorto sulla lunga lista dei vini in mescita. Le passai il calice, cercando di tenerlo dallo stelo. Qualcosa di vino ne sapevo anche io.
Barbara chiuse gli occhi e si immerse nel rosso, silenziosa e bellissima. Fece roteare un po’ il vino, tornò col naso nel calice e rapida ne assaggiò un sorso. Non aveva rossetto. Mi restituì il bicchiere, mentre la osservavo, fuori sicuro di me, dentro stravolto.
– Niente male – disse – C’è una sensazione di legno un po’ troppo marcata, ma rientra nello stile della denominazione. La senti?
– Veramente no. – iniziavo a innervosirmi.
– Metti il naso ben dentro il calice. Non avere paura, annusa, annusa forte.
– Sniiiiiffff snifffff – mi sentivo un po’ ridicolo, anche.
– Senti quella sensazione un po’ vanigliata, dolce?
– Ah sì. – ero già alla seconda bugia in pochi minuti.
– È uno degli effetti del legno durante la vinificazione o nell’affinamento. Quella noi la chiamiamo nota boisé, quando vogliamo impressionare qualcuno.
– Ti assicuro che ci sei riuscita benissimo – dissi accorgendomi all’istante che stavo spargendo un po’ troppo zucchero.
Sorrise, fissandomi per un istante di troppo. Avrei voluto baciarla ma non ero sufficientemente vicino. Escogitai un piano.
– Mi fai provare il tuo? – le chiesi.
Mi passò il calice senza parlare. Annusai il vino e lo assaggiai. Era decisamente più acido del mio Chianti, ma in quel momento non me ne importava nulla, era solo uno stratagemma. Posai il bicchiere tra me e Barbara e quando lei allungò la mano per riprenderlo, gliela afferrai. Restammo così, sospesi come statue di sale scalfite dal vento, immobili come il Faro di Svörtuloft in mezzo alla tempesta. Mi lanciai, mi tuffai verso le sue labbra, forse troppo rapidamente, ma lei non si scostò, anzi. Ricambiò il bacio, trasmettendomi sprazzi di erbaluce che no, non era più così acido. Poche cose danno l’emozione del primo bacio, nulla, anzi. Barbara si alzò e spostando la sedia di legno si sedette al mio fianco, sorridendomi.
– Mi hai baciato anche se non ne capisco nulla di vino? – ebbi la forza di chiedere con voce quasi stridula.
– Non serve capire di vino per farlo! – fu la sua risposta, rapida come una saetta. E mi baciò ancora.
Più tardi, a casa mia, seduti sul divano, tornammo a parlare di vino, di quella bottiglia di Cremant che avevamo comprato al wine bar e avevamo deciso di bere da me. Imparai cos’è un Crémant de Bourgogne, con che uve si fa e dove. Acciambellata come un gatto, Barbara, sembrava del tutto rilassata, compiaciuta di poter fare la maestrina in fatto di vino, ma anche di architettura.
– Nella mia tesi di laurea c’era un intero capitolo sulla storia delle camere da letto. Furono i Greci a inventare il letto tricliniare, il famoso lecti convivialis: non ci si dormiva e basta, era utilizzato per intrattenere gli ospiti che si sdraiavano lasciando il tavolo al centro. I Romani ampliarono il concetto, dopotutto per loro il pranzo era una cosa molto seria: poteva durare anche parecchie ore.
Forse per il vino, o per il fatto di trovarmi tra le mura domestiche, nella tana dove – si sa – il lupo è più forte, azzardai.
– C’è un motivo per cui mi parli di letti?
– Ma no, stupido!
Passammo gran parte della notte così, sorseggiando il Crémant, ridendo molto, baciandoci, qualche volta. Mi mancò il coraggio di affondare il colpo, ma non sono pentito: non era quello che volevo.
– È quasi l’una, io vado – disse Barbara reprimendo uno sbadiglio. Non so se seppi nascondere la mia delusione. Si infilò le Adidas, bevve l’ultimo sorso e si avviò alla porta.
– Non ti trattengo – dissi fingendo nonchalance. – Quando ci vediamo?
– Certe promesse sono fragili, meglio non farne.
Chiuse la porta dietro di sé, e io non la vidi mai più.