Pantelleria è un luogo magico, che le parole non possono spiegare. 83 chilometri quadrati crocevia di storia e tradizioni: gli Arabi la chiamarono Bent-al-Ryion, figlia nel vento. Nel cuore di Pantelleria, proprio in mezzo al parco nazionale dell’isola, si erge il Monte Gibele. È un vulcano inattivo, ricoperto di vegetazione e non supera i settecento metri. Il vino di cui voglio parlarvi rimanda a questa altura: il Gibelè delle Cantine Pellegrino.
Ottenere un buon vino secco da uve aromatiche non è impresa semplice: ma con Gibelè si è andati oltre. Da uve zibibbo in purezza – che altro non sono che moscato d’Alessandria – Pellegrino estrae un sorso puro, che profuma di ginestra, di miele, di cedro del Libano, di frutta tropicale. Fine e molto complesso, scandisce profumi con precisione chirurgica, senza eccessi. Con un po’ di attenzione emergono altri sentori, minerali, soffi di lava e gesso: sono i nobili apripista al sorso immediatamente sapido, intenso, di ottima corrispondenza gusto olfattiva.
Anche in bocca non rilevo strappi, ma piuttosto una progressione educata, forse un po’ ruffiana ma ineccepibilmente di pregio. La componente aromatica è gestita in maniera sapiente, non cerca di nascondersi, né di sconfinare:
Non c’è travestimento che possa alla lunga nascondere l’amore dov’è, né fingerlo dove non è.
François de La Rochefoucauld
Ho abbinato Gibelè a un piatto di spaghetti integrali con tonno, capperi e olive, su cui avevo fatto cadere un po’ di zest di limone. Abbinamento sopraffino e pranzo splendidamente riuscito.