di Giovanna Russo, Sommelier e Degustatore AIS

 

Si è chiusa il 5 marzo scorso la sessione milanese di Identità Golose, il Congresso internazionale degli chef che da ben quattordici anni si impone come punto di incontro e confronto tra tutti i protagonisti di ciò che è “alto” in campo enogastronomico: alta cucina, alta pasticceria, alto livello del servizio di sala e alta qualità dei vini selezionati.

Definirlo un evento è a dir poco riduttivo, trattandosi di un grande cornice che, come una matrioska, raccoglie al proprio interno una serie di eventi propri, come Identità di Formaggio, Identità di Gelato, Identità Naturali, Identità di Champagne e Identità di Libri, ed eventi correlati, incorporati al consesso madre, come The WineHunter.

Ma chi sono gli artefici di tutta questa gigantesca macchina finalizzata ad alimentare il circuito della buona ristorazione? Paolo Marchi, giornalista, ideatore e curatore di Identità Golose, e Claudio Ceroni, esperto nel campo della produzione televisiva e nella realizzazione di grandi eventi, a cui fa capo la società MAGENTAbureau che si occupa dell’intera organizzazione del Congresso.

Tema dell’anno: il fattore umano.

Durante la giornata di apertura è lo stesso Marchi a spiegarne il senso.

Affinché si possa uscire dal ristorante soddisfatti e gratificati, non basta che un piatto sia stato cucinato bene, ma occorre che tutto il contesto sia capace di valorizzarne la bontà in modo da lasciare al cliente una piacevole sensazione di benessere. Costui dovrà sentire e ricordare tale momento conviviale come una coccola concessa al gusto e giammai portarsi dietro la sgradevole sensazione di essere stato trattato “come un semplice cliente”. Perché ciò avvenga, è importante sia la cura del piatto, che dovrà essere esteticamente gradevole e invitante ma soprattutto buono, sia l’attenzione al servizio offerto in sala alla quale dovrebbe essere preposto personale qualificato, capace di seguire e guidare gli ospiti con eleganza e discrezione.

Se si considera, ad esempio, il servizio relativo ai vini, la presenza in sala di un bravo sommelier può produrre il duplice e convergente effetto di innalzare il livello di qualità del ristorante in termini di customer satisfaction e di promuovere la cultura del vino che, se ben veicolata, funge, a sua volta, da “carburante” per il circuito food and beverage.

Ma il fattore umano permea la ristorazione ancora più a monte: ciò che arriva sulle tavole dei ristoranti è anch’esso il frutto di un serie di relazioni umane imprescindibili ed essenziali per l’ottima riuscita delle preparazioni. Se il piatto è ottimo significa che lo chef è stato capace di selezionare i giusti fornitori e di rifuggire da eccessi di individualismo, puntando sul lavoro di squadra e sugli apporti sinergici con i propri collaboratori.

Ma come si pone la regione ospite, la Calabria, rispetto al tema di Identità Golose? Introduce l’argomento Federico Quaranta, conduttore di Decanter su Radio2 con esperienza anche nel campo della conduzione televisiva (es. Linea Verde). La ristorazione calabrese è intrisa sino al midollo di rapporti e relazioni che sono espressione di un’umanità nel senso pieno della parola. Se non ci fosse stata una rete operosa di rapporti umani, questa regione probabilmente sarebbe ancora un bosco. In Calabria la ristorazione punta sempre di più sulla qualità e sulla valorizzazione del proprio territorio, elaborando ricette con prodotti locali “di prossimità”,  un concetto di distanza ancora più ridotta rispetto al km zero.

Caterina Ceraudo, calabrese per natura e per passione, è la prima a dare inizio agli showcooking.

Chef del ristorante stellato Dattilo di Strongoli-Crotone e figlia di Roberto Ceraudo, viticoltore pioniere in Calabria nel campo dell’agricoltura biologica, la Ceraudo spiega come la sua cucina e i suoi piatti siano saturi di umanità. Fa un esempio partendo proprio dal piatto presentato: i suoi capellini non profumerebbero di anice nero se non avesse stretto collaborazione con persone disponibili alla raccolta dei semi di questa pianta che si inerpica sull’altopiano della Sila. Ma certamente neanche la sua “rosa di gamberi rossi marinati in succo di barbabietola” sarebbe stata la stessa se non avesse trovato fornitori capaci di offrirgli materie freschissime e della migliore qualità. In Calabria, insomma, c’è una buona ristorazione che cerca di “fare rete” per valorizzare il territorio.

Ma passiamo agli espositori presenti a Identità Golose per vedere se anche loro sono entrati a pieno nello spirito del Congresso.

Premesso che la location, situata in uno degli spazi meglio allestiti del Mico, era senza dubbio adeguata per le dimensioni e l’importanza dell’evento, ho notato nella gran parte degli espositori presenti un vero e proprio trasporto nel far conoscere i propri prodotti. Riguardo alla gastronomia, ricordo con particolare appetito la pasta con farina di fagioli e spuma di barbabietole proposta dal marchio Felicia, specializzato in paste vegane e glutenfree preparate in base a ricette firmate dallo Chef Massimo Buono, le violette al baccalà proposte in degustazione da Divine Creazioni secondo le interpretazioni dallo Chef Alessandro Gilmozzi, la strepitosa Culatta emiliana di Devodier, nonché il pregiato suino nero tagliato al coltello dell’Antica Corte Pallavicina di Polesine Parmense. E ancora, le profumatissime “bollicine” di tartufo nero umbro della Tenuta San Pietro a Pettine, la morbidissima e succosa tartare di fassona piemontese della Macelleria Oberto, e, impossibili da dimenticare, gli eccezionali formaggi del caseificio di Cortina D’Ampezzo Piccolo Brite.

In alcuni espositori, a dire il vero pochi, ho riscontrato una minore propensione all’accoglienza. È chiaro che chi produce o vende cibi che sono o considera “preziosi” non può permettersi di darli in pasto a chi non è interessato alla reale conoscenza del prodotto ma solo a raccattare bocconi che tutti insieme possano sommarsi in un pranzo. Tuttavia, è altrettanto vero, che chi partecipa a questo tipo di eventi, si considerino costi e modalità di accesso al Congresso, tendenzialmente è qualcuno che opera nel settore, e quindi gioco forza potenzialmente interessato, o uno che pur non operando direttamente nel settore, è comunque interessato a conoscere e diffondere la cultura e le novità in ambito enogastronomico.

In contesti di alto profilo come quello di Identità Golose, più umanità e meno calcoli freddi sul rapporto costi-benefici tra ciò che si offre e ciò che si può ricevere dall’evento, non può, a mio avviso, che rendere maggiormente “umano” il rapporto con l’utenza aprendolo a rapporti fruttuosi e talora inaspettati.

Ed eccoci arrivati allo spazio vini dedicato al The WineHunter, l’evento che anticipa e prepara il Merano WineFestival. Un’area un po’ meno frequentata rispetto alle altre del Congresso, che accoglie oltre novanta aziende vitivinicole e propone in degustazione vini tra cui quelli che si fregiano del bollino rosso (punteggio da 88 a 89,99/100), gold (punteggio da 90-94,99/100) e platinum (punteggio da 95+).

Mi tuffo tra i banchi.

Duca di DolleL’inizio è soft ma estremamente gradevole: CUV, Prosecco Superiore Brut “Rive di Rolle” 2015 Cuvèe dell’azienda Duca di Dolle, premiato con il bollino rosso. Si tratta di un Valdobbiadene prosecco con un residuo zuccherino molto basso (circa 5 gr/lt) prodotto da uve glera 100 % che rimangono in autoclave per circa 90 giorni. Il profumo, pur nella sua semplicità, è fine, piacevole e croccante, con sentori spiccati di mela verde. La sua acidità è un’onda rinfrescante che invoglia a un nuovo sorso e ad altri ancora.

A seguire provo ZERO, il Prosecco Superiore di Cartizze Brut della medesima azienda. Mi colpisce più del primo per la maggiore intensità aromatica che dal bouquet di fiori bianchi freschi vira verso le note fruttate di mela gialla e pera williams. Di questo vino, come del precedente, apprezzo particolarmente la bevibilità che non cede mai alla stucchevole sensazione di “dolcino” spesso ricorrente in molti prosecco.

Passo quindi alle bollicine più strong del metodo classico e, nello specifico, mi soffermo sul Trento doc.

Bollino gold per il Pas Dosé 2010 di Altemasi, un blend composto per il 60% da chardonnay e per il 40% da pinot nero vinificati solo in acciaio prima della presa di spuma e con una sosta sui lieviti di ben 72 mesi. Il sentore minerale di roccia bagnata si stempera nella fragranza della crosta di pane e nelle note di lievito. L’ingresso in bocca è potente, come una lama d’acciaio, sorprendente la freschezza e quella sapidità che in pochi secondi asciuga il palato suscitando il violento desiderio di un’accoppiata gastronomica con cibi succulenti e grassi.

Meno “metallico” e più rotondo l’Altemasi Riserva Graal 2010, che affina anch’esso per circa 72 mesi e che presenta una percentuale di chardonnay leggermente maggiore (70%). L’utilizzo del legno e il ricorso alla malolattica conferiscono a questo spumante una maggiore morbidezza rispetto al primo e un’eleganza più suadente e femminea. All’olfatto i sentori di pasticceria e miele si mixano con le note di sciroppo d’acero e con quelle agrumate di cedro e clementine. Il sorso è avvolgente e la persistenza notevolmente lunga.

Mi soffermo, a seguire, sul Friuli e sui vini della Bracco 1881, azienda sita in prossimità del confine sloveno ed arrivata alla quinta generazione di viticoltori. Bollini entrambi rossi per il vino bianco Ultimo Friulano 2015 e per il Refosco dal Peduncolo rosso 2013. Ultimo è ottenuto da uve friulano 100% facenti parte di un vecchio vigneto ultrasettantenne. Si tratta di viti frutto di una selezione massale del vitigno e non di cloni, per cui ogni pianta ha una sua precisa identità genetica. Esse affondano le proprie radici in un terreno che poggia su di un plateau di origine oceanica dal quale suggono quella “mineralità” che si traduce in freschezza piena e sapidità del sorso. L’impatto olfattivo di Ultimo mette in mostra la tempra aromatica del friulano: fiori di tiglio, pesca nettarina e leggeri sbuffi di banana, che cedono elegantemente il passo ad un delicato sentore di confetto. Caratteristico, a livello gustativo, il finale ammandorlato.

Il Refosco, di un rubino acceso e vivace, si offre invece al naso con profumi freschi di rosa, fragoline di bosco e lamponi, accompagnati da un’intrigante nota speziata di pepe rosa. All’assaggio mostra un’inconsueta rotondità. L’innata nervosità del vitigno è infatti mitigata dall’appassimento naturale del 20% delle uve nonché dal ricorso alla malolattica. Incide senz’altro anche la maturazione in grandi botti di ciliegio per circa 18 mesi. Bollino rosso più che meritato!

E quando il gioco si fa duro, i duri iniziano a giocare!

È il turno di un altro bollino rosso, il Quercione 2013 Vino nobile di Montepulciano Riserva dell’azienda Lunadoro (90% sangiovese con un 10% tra canaiolo e mammolo). Ottenuto dalle uve di una vecchia vigna, riposa in legno per circa 30 mesi tra tonneau e botte grande. Il suo complesso repertorio aromatico spazia dalle amarene sotto spirito ai fiori rossi appassiti, dai chiodi di garofano alla corteccia di lapacho, dal tabacco al cioccolato fondente. Il sorso è composto ed elegante, notevole la freschezza che si accompagna ad un tannino levigato. Persistente, chiude lasciando il ricordo della polvere di cacao amaro.

Della Casa Vinicola Sartori provo i due Amarone della Valpolicella, il Reius 2011 e I Saltari 2010, rispettivamente bollino rosso e bollino gold. Il profumo del primo passa dal naso direttamente al cuore: la spremuta di amarene si fonde con la violetta e con le note speziate di ginepro e anice. Al palato è caldo e vellutato, con un finale soddisfacente perfettamente in linea con l’olfatto. Uno sposo perfetto per il petto di piccione al tartufo bianco!

L’amarone I Saltari mostra invece una certa timidezza nell’aprirsi al degustatore curioso e sconosciuto, richiede un po’ più di tempo, di confidenza. Ricompensa però chi ha la pazienza di aspettare con un ventaglio odoroso elegante e ampio, in cui ai piccoli frutti a bacca nera si affiancano nuances di pepe e di torrefazione arricchite da sfumature di tabacco. Sullo sfondo una nota terrosa e di corteccia che sembra quasi un poetico gesto di ricongiungimento del vino alla sua terra. Buona la struttura, notevoli sapidità e persistenza.

Con un balzo dal Nord al Sud mi ritrovo ad assaggiare l’Etna Rosso Nero di sei 2014 di Palmento Costanzo (80% nerello mascalese, 20% di nerello cappuccio). Un vino del sole ma non del caldo. Lo si avverte subito a livello olfattivo: il mirtillo nero sotto spirito, la grafite e il ginepro fanno il loro ingresso in maniera nitida e sottile su una cornice balsamica di notevole eleganza; la classe si mantiene anche a livello gustativo, dove l’effetto finale è quello di una aristocratica austerità frutto di una vena sapida ben presente, di un tannino setoso e di una discreta dose di morbidezza dovuta anche alla buona concentrazione alcolica.

Sono quasi alla fine e non potevo saltare i vini di Gianfranco Fino. L’Es dà sempre grandi soddisfazioni e io riesco a provarne una mini verticale che dal 2016 arriva al 2014. Si tratta di primitivo 100% ottenuto da vigne vecchie da 50 a 90 anni, con alle spalle nove mesi di riposo in barrique di primo e secondo passaggio e una sosta finale in bottiglia di circa 6 mesi. Il caleidoscopio aromatico del 2016 si articola in sentori di mele rosse candite, prugne in confettura, cioccolato e liquirizia. Il 2015, bollino gold, lo trovo maggiormente concentrato sulle note di ribes nero e su sfumature che ricordano le olive al forno e il tabacco da pipa. Il 2014, che dire, c’è tutto e anche di più; frutto maturo e grande balsamicità: prugne disidratate, mentuccia, liquirizia, insieme a note di pepe, ginepro e caffè. Il corpo è sempre pieno, opulento, la carica polifenolica ricca, ma in tutte e tre le annate la sensazione di stanchezza gustativa è … zero. Es, mai nome avrebbe potuto essere più azzeccato per questo vino!

Chiudo in bellezza con un bollino rosso, l’Ambra Marsala Superiore Riserva 1998 delle Cantine Pellegrino 1880. L’uvaggio è composto da grillo, cataratto e inzolia, rispettivamente nella misura del 70%, del 20% e del 10%. Nei suoi profumi ne ritrovo alcuni della mia terra a me cari: le mandorle caramellate, i fichi secchi, le scorzette d’arancia candita, le albicocche disidratate e le noccioline tostate vendute al cartoccio. Le affascinanti note ossidative si ritrovano in perfetta corrispondenza anche al sorso, dove una dolcezza equilibrata e discreta si bilancia con una componente fresco-sapida viva e presente. La persistenza è davvero infinita e non tollera successive interferenze. Un gran vino da meditazione; di quelli che mi piace assaporare in solitudine o con la compagnia di piccoli lingotti di cioccolato salato.

Soddisfatta, posso interrompere il tour.