Parecchie volte, su questo blog, abbiamo trattato vini provenienti da vitigni autoctoni. Ma forse abbiamo fatto un errore. Abbiamo dato per scontato che l’autoctonia fosse facilmente interpretata da chi ci legge come una caratteristica da evidenziare in un vino, un po’ come la provenienza da viti centenarie o da vigneti impiantati a piede franco. Non è sempre così, purtroppo.

Chiediamocelo: perché un consumatore, ancorché consapevole e attento, dovrebbe preferire un vino proveniente da uve autoctone, rispetto a un altro? Non è il gusto finale quello che conta?
Stiamo per entrare – vi avverto – in un campo minato, quello della filosofia vinicola: è una particolare materia che genera conflitti spesso mai risolti tra fazioni radicali e che trascina da tempo immemore vari temi, senza mai giungere a una conclusione.
A puro titolo di esempio fanno parte della filosofia del vino i conflitti tra i barolisti tradizionali e i cosiddetti Barolo Boys, tra coloro che amano i vini di corpo e coloro che adorano la verticalità e la mai conclusa faida tra chi ama i vini vinificati in legno e chi li detesta.
Tornando a noi: vitigni autoctoni o internazionali? La prima cosa utile da sapere – per chi ancora tra voi non ne fosse a conoscenza – è che l’Italia possiede un patrimoni ampelografico senza eguali nel mondo: oltre 350 varietà di uva.
È un numero che da solo spiega la tradizione vitivinicola nel Belpaese. Quando un vitigno si può definire autoctono? Non c’è una risposta univoca. Partiamo dalla parola autoctono che deriva dalle parole greche autòs (stesso) e chtòn (terra): nell’enomondo c’è chi dice che un vitigno è autoctono quando vi sono prove di una sua ancestrale presenza in un territorio e nessuna traccia di altra e più recente provenienza. Vi è quindi un vincolo bidirezionale tra vitigno e territorio.

Altri sostengono che basti un più generico stretto legame con il territorio nel quale è impiantato. Facciamo un esempio: il nero d’Avola è certamente un vitigno autoctono, introdotto in Sicilia ai tempi della colonizzazione greca: tuttora conserva memoria delle sue antiche origini nella tradizionale forma d’allevamento ad alberello. Bene. Ma se pensiamo a Bolgheri, altra zona di immensa tradizione vinicola, qual è il vitigno autoctono? Il cabernet sauvignon, che è originario del Bordeaux? E del merlot dei Colli Orientali del Friuli o della Lombardia occidentale, ne vogliamo parlare? Lì il merlot è presente da secoli, è tutt’uno con il territorio, ha assunto caratteristiche proprie non riscontrabili in altri merlot: si può considerare autoctono? Probabilmente sì e allora… autoctoni si può diventare!

Faccio questa premessa per introdurre l’edizione 2017 di Autoctono si nasce, il banco degustazione di Go Wine tenutosi giovedì 26 gennaio all’Hotel Michelangelo di Milano. Anche quest’anno abbiamo conosciuto belle persone e bevuto buoni vini. Rigorosamente da vitigni autoctoni. Ecco una selezione:

Cennerazzo: proviamo Sphera 2015 un buon Greco di Tufo, proveniente da vigne di età tra i 10 e i 25 anni. Ancora parecchio scalpitante, ma dotato di energia positiva. Al naso è riconoscibile e minerale, quasi sulfureo. L’amalgama gustativa non può – non deve – essere completa ma il sorso è rapido e piacevole. Bottiglia serigrafata molto bella.

Pietro Cassina: una bella sorpresa Tera Russa 2011, vespolina in purezza dalle terre ferrose di Lessona. Naso balsamico e profondo, dinamico e aristocratico, bocca croccante e intensa. Un bel vino.  

Cantina San Marzano: torniamo al sud, con un vitigno poco conosciuto ma di grande prospettiva. Talò 2015 è un verdeca in purezza nel quale ai sentori vegetali e iodati, alla nota agrumaria di cedro candito, fa da contraltare la morbidezza conferita dall’affinamento  in barrique di rovere francese. Fresco e sapido, ottimo per gli aperitivi estivi ed i pranzi con fritti di pesce.