da targatocuneo.it
In questi
giorni di vendemmia uno degli argomenti più dibattuti nell’enomondo – oltre ai
commenti disparati sulle prime anticipazioni delle guide – è quello
sull’arricchimento del mosto tramite aggiunta di mosti concentrati rettificati, noti con
l’acronimo MCR. La pratica potenzialmente è in grado di elevare il grado
zuccherino e di conseguenza il titolo alcolico finale ed è stata pensata per
sostenere le vendemmie in annate particolarmente sfortunate dal punti di
vista meteorologico, piovose e con poco sole. Nelle intenzioni del legislatore un provvedimento di emergenza una
tantum
 e non un sussidio annuale.
Ebbene, già diverse regioni – istituzioni a cui è demandata per legge la
facoltà di permettere l’arricchimento – hanno concesso “l’aiutino”,
persino in questa stagione che certo non si è contraddistinta per le basse
temperature. Da provvedimento di emergenza, quindi, sembra che si sia passati ad espediente fisso.  

I dubbi
aumentano se pensiamo che già da un mese le toto vendemmie 2015 parlano di
annata del secolo” (l’ennesima), o più realisticamente di
“grande annata” e proprio non si capisce perché ci sia il
bisogno di arricchire mosti che dovrebbero già contenere lo zucchero
necessario. È bene precisare che le uve impiegate per ottenere gli MCR non
necessariamente provengono dalla stessa zona del mosto cui sono destinate,
spezzando inevitabilmente il legame territoriale del futuro vino, oltre –
naturalmente quello con l’annata.
da liberoreporter.it
FIVI è stata tra le prime a dare l’allarme, allorquando a fine agosto ha inviato attraverso il presidente Matilde Poggi una lettera agli assessori all’agricoltura delle regioni e province autonome, chiedendo la “radicale revisione dei criteri di autorizzazione dell’arricchimento che porti la stessa pratica ad essere correttamente intesa come una extrema ratio, cui ricorrere solo nelle annate effettivamente estremamente sfavorevoli oppure in aree eccezionalmente colpite da avversità atmosferiche
Abbiamo
chiesto all’enologo Federico Harraser di Sapere di vino, di dirci la sua sul MCR e sulla tendenza
a demonizzarlo.
Quando parliamo di scienza e tecnologia vitivinicola o
agroalimentare non è facile dire se la pratica è sempre da condannare. Il MCR è
già una via intermedia tra il mosto concentrato e il glucosio ottenuto per
idrolisi dal saccarosio.  
Il MCR è un mosto disidratato che però viene fatto passare attraverso delle
scambiatrici, resine cariche elettricamente che sottraggono acidi e proteine,
ferro e azoto. È sempre incolore, trasparente, ricco di glucosio e
fruttosio. Quando si usa? Beh se si alza
la resa, per esempio, la qualità dell’uva ovviamente si abbassa quindi i produttori da grandi
numeri necessariamente devono ricorrere all’arricchimento del mosto. Alla fine è solo una
questione di etica del produttore. Non bisogna criminalizzare lo strumento ma condannare fermamente l’uso disinibito che eventualmente se ne
fa: la tecnologia di per sé non è un male.

Ora sappiamo perché si usa il MCR ma forse, cambiando prospettiva, bisognerebbe anche chiedersi perché si produce
MCR. I motivi – guarda un po’ – sono essenzialmente economici, ma in che
termini? Il MCR costa più del vino ma quanto? Secondo il prezzario della Camera di
Commercio di Bologna il MCR si vende a 4,20 euro a brix per ettogrado (dove il brix è l’unita di misura dello zucchero disciolto nel liquido). Il
MCR è venduto normalmente a una concentrazione di 70 brix, quindi – risparmiandovi una serie di calcoli infiniti – il prezzo finale per un litro di MCR è vicino ai 3 euro, contro i 45 centesimi al litro per un vino sfuso (prezzo medio, fonte ISMEA).
  

Non tutti si schierano contro lo zucchero: una voce autorevole in tal senso è quella di Mario Soldati che in Vino al Vino – opera sempre attuale – attribuisce il divieto da parte del legislatore dell’impiego zucchero a favore di quello del mosto concentrato non per criminalizzare lo zucchero stesso quanto per consentire alle grandi produzioni pugliesi e siciliane di avere uno sbocco commerciale. In effetti Soldati fa una considerazione che fa riflettere: persino la legislazione francese – generalmente così severa – consente la chaptalisation. Meditate, gente.

Conclusioni? La verità, come spesso accade, sta nel mezzo. Vero è che lo zucchero e la tecnologia non vanno demonizzati, ed eletti a male assoluto dell’impresa vitivinicola ma è pur vero che consentire l’arricchimento anche in annate che non lo richiederebbero è uno schiaffo ai produttori capaci e a tutte le piccole realtà che rifiutano questa pratica.
Lasciare libertà di giudizio ai produttori circa la possibilità di arricchire il mosto – come da più parti si richiede – beh, forse è una cosa che potremmo permetterci fra qualche generazione, quando (forse) si penserà un po’ più al benessere collettivo e un po’ meno a quello individuale, quando si penserà di più a produrre vini sinceri e un po’ meno al tornaconto economico.