Quest’anno villeggiatura anticipata: complice un matrimonio al quale sono stato invitato, mi trovo in Salento, terra ricca di tradizione, storia, bella gente e… bei vini. Nella lotta allo stereotipo che vede(va) la Puglia soprattutto come serbatoio nazionale per i vini da taglio per le aziende del nord Italia, le province di Lecce e Brindisi hanno avuto un ruolo determinante. Durante lo scorso VinItaly, è stato chiesto a un gruppo di esperti del settore di indicare tre zone italiane che, a loro parere, rappresentano il futuro enologico: il Salento è risultato tra i più votati, e la cosa non ha sorpreso nessuno.
Nella sempre più diffusa esigenza di migliorare il prodotto finale, molti viticoltori pugliesi hanno già da parecchi anni gradualmente abbandonato metodi coltivazione massivi, riuscendosi a distinguere nel folto mercato enologico. Certo, per molti aspetti la regione è rimasta simbolo di produzione di quantità (il famigerato bidoncino di plastica da cinque litri è ancora largamente diffuso, alla modica cifra di cinque euro circa), tuttavia si assiste sempre più spesso ad importanti inversioni di tendenza, confermate dalle presenze di alcune storiche aziende che confermano la propria leadership, nonché dall’affacciarsi di viticoltori giovani e dalle idee molto chiare.
Sabato 22 Alessandro mi ha procurato un appuntamento presso Cantele, a Guagnano. Conoscevo già l’azienda, soprattutto per lo chardonnay Teresa Manara, bottiglia sempre presente nei migliori ristoranti del Salento.
Ci accoglie Angelica: ci spiega la genesi dell’azienda, nata da un sogno romantico come solo la vita riesce a donare, più di qualunque romanzo. Giovanni Battista Cantele lasciò il Veneto andando incontro al proprio luminoso destino, insieme a colei che ne diventerà la moglie, Teresa Manara. Subito dopo la seconda guerra mondiale, Giovanni Battista si avvicina al mondo del vino sfuso e insieme a Teresa visita il Salento per questioni di lavoro. Sarà amore a prima vista, e nel secolo delle emigrazioni al nord, compiono un coraggioso passo controcorrente e si trasferiscono a Lecce.
Nel 1979 Giovanni Battista ed i figli Augusto e Domenico fondarono le Cantine Cantele, imbottigliando vino fino agli anni Novanta, allorquando acquistarono i primi ettari di proprietà. E’ il primo passo verso quella che, oggi, è una realtà da due milioni di bottiglie all’anno, di cui circa il 70% destinato al mercato estero; oggi i nipoti di Giovanni Battista e Teresa conducono l’azienda, che ha raggiunto i cinquanta ettari di proprietà e centocinquanta in conduzione.
La struttura della cantina è quella classica della masseria e nulla è stato lasciato al caso, indirizzando vendemmia e vinificazione alle più moderne tecniche reperibili sul mercato. Di tanto in tanto, nel corso della visita, farà capolino Umberto, uno dei Cantele oggi alla guida dell’azienda; lo stesso Umberto ci spiegherà il punto di vista aziendale, una mission che vuole sì rispettare la tradizione familiare, senza tuttavia perdere di vista il sommo giudice del commercio vitivinicolo: il mercato.
Il cortile Cantele |
Particolare della barricaia |
La visita passa attraverso la barricaia, costituita da circa settecento pieces, destinate ad accogliere i vini rossi e lo chardonnay Teresa Manara. Gran parte delle barrique sono di rovere francese, la restante di quercia americana; il giro si conclude nella zona imbottigliamento ed etichettatura.
L’impressione che ho è di una azienda ben organizzata, che lascia poco spazio alla improvvisazione e al romanticismo vinicolo. Una azienda con un bel sito (http://www.cantelevini.com/), che strizza l’occhio ai social network e condivide la ricerca dell’estetica del gusto, specie se ricerca e gusto coinvolgono i sensi: proprio in questo affascinante contesto, Cantele ha inaugurato il Laboratorio sinestetico, denominato proprio iSensi, un luogo ove far convivere eventi sensoriali che prendono forma, suono e aroma.
Il nostro giro prosegue in sala degustazione: moderna, minimalista, pratica; un piacevole incrocio di giochi di luci, design ed estetica funzionale.
Angelica ci mostra i prodotti Cantele, esposti in una parete: la varietà spazia da vini ottenuti da uve autoctone a quelli internazionali, dai monovitigno non esattamente del territorio della gamma Alticelli a quelli tipici salentini.
Alessandro ed io decidiamo di provare quasi tutto, tralasciando quello che conosciamo già; iniziamo con il Verdeca 2012, dal naso fruttato ed erbaceo, con note in particolare di foglie di pomodoro, estremamente fresco, ancora un po’ slegato, risente probabilmente del recente imbottigliamento.
Subito dopo proviamo l’Alticelli Fiano 2012: floreale ed esotico al naso, rivela una struttura delicata e tuttavia manifesta una esuberante gioventù. Merita senz’altro qualche mese in bottiglia prima di poterlo giudicare compiutamente.
Giunge il turno del Negroamaro rosato 2012, tra i più attesi della degustazione. Rosa chiaretto luminoso, naso nitido di ciliegia e spezia, ripercorre felicemente la tradizione dei rosati salentini, dal nerbo potente e dotati di intrinseca eleganza; si abbina perfettamente a pesci importanti e carni bianche.
Iniziamo il giro dei rossi con Varius Syrah 2010: il più franco dei vini di oggi, impronta varietale riconoscibile e giustamente fiera, con note speziate e di visciole mature, in bocca ha struttura ben sostenuta da acidità, alcol integrato e tannino perfettamente apparentato. Lungo finale ammandorlato, in totale armonia gusto olfattiva. Mi è piaciuto davvero.
Segue l’Alticelli Aglianico 2009, che si presenta con impenetrabile rosso rubino carico; l’olfatto parla di frutti neri maturi, pot pourri, nota alcolica in evidenza. Il gusto è incentrato, ca va sans dire, su alcol e tannino che tuttavia sembrano sgomitare un po’ tra loro per emergere: frutto ancora nitido e acidità apprezzabile. Non è l’aglianico della vita ma è da provare.
E’ il turno del Salice Salentino 2009 riserva: naso ampio ed elegante, nitido e lineare, è un chiacchierone che si manifesta con note di bacche, polvere di caffè, tamarindo, melograno, nuances orientali e balsamici, ed infine un lieve sussurro vanigliato. Al palato è equilibrato, fresco e sorprendentemente beverino.
Concludiamo con il Teresa Manara Negroamaro 2010: naso fruttato, speziato e leggermente balsamico, in bocca rimanda a sentori terrosi ed erbacei, manifestando la propria mediterranea natura; finale lungo ed ammandorlato.
Visita finita, compro un paio di bottiglie da far assaggiare agli amici.
Consiglio, a chi fosse nei paraggi, di dedicare un paio d’ore alla visita della cantina: ne vale la pena.