Giusto un anno fa, commentando l’edizione 2015 di Golosaria a Milano, sollevammo da questo blog più di una critica, perlopiù logistica. Spazi mal gestiti e scarsa affluenza ci colpirono notevolmente, considerata l’importanza dell’evento e la fama dei promotori. Si trattò – ora lo sappiamo – di una fase di rodaggio, visto che l’anno scorso fu il primo anno della rassegna al MiCo. Quest’anno ci siamo andati ancora e – parafrasando un famoso allenatore di calcio che sfortunatamente non è più in Italia – il campanile è tornato al centro del paese. Golosaria 2016 si è ripresa il posto che le competeva, grazie ad una maggiore e più efficace campagna pubblicitaria, una diversa e più funzionale disposizione degli espositori, specialmente quelli vinicoli, una scelta attenta e sempre azzeccata dei 300 espositori scelti.
Il tema di quest’anno è stato “Dal cibo, le civiltà“. Ed un giro tra diverse civiltà in effetti è stato: il cibo e il vino rappresentano testimonianze antiche e inestimabili della vita dell’uomo nel corso del tempo, di come abbia modificato i propri costumi, le abitudini e finanche l’aspetto fisico in loro funzione.
Il programma era fitto, con 90 eventi tra talk, show cooking, wine tasting, master e lab: non c’era il rischio di annoiarsi. Una delle novità di quest’anno era rappresentata da un’area Cucina di strada, dove era possibile provare specialità nostrane dai tagliolini al tartufo alla carbonara, passando per gli Sciatt valtellinesi. I prezzi dei piatti proposti – diciamolo chiaramente – non erano esattamente bassi ma ciò che abbiamo provato era di buona qualità. Molto apprezzata l’area dedicata all’olio EVO, con la collaborazione di Città dell’olio.
Tra i vini abbiamo provato:

Già Palmento Santo Spirito, in quel di Castiglione di Sicilia, a settecento metri nel cielo.

Mofete 2015, blend di carricante, catarratto e minnella. Il profumo sa di libertà, di prati in fiore a primavera, di roccia e rugiada. Il sorso è semplice, senza zavorre, pulito e molto piacevole. Estivo.
A seguire Bianco di Sei 2015, stesse uve del Mofete: qui però i vigneti hanno dagli ottanta ai cento anni e la differenza si sente tutta. Non parlerei di maggiore finezza piuttosto di più intensa profondità, di sensazioni gusto olfattive amplificate, di sapidità rocciosa e sbuffi di pietra lavica. Nel sorso una carezza e nel finale un lungo sospiro. Da segnare.

Vignaioli di Corinaldo, vicino Ancona. Terra di verdicchio, certo. Ma a noi è piaciuta molto Giordi 2015, una lacrima di Morro d’Alba come non ci capitava di assaggiarne da tempo. Non in molti sono a conoscenza del fatto che questo vitigno negli anni settanta ha rischiato l’estinzione, allorquando una politica agricola esclusivamente utilitaristica e miope preferiva vitigni di altro tipo. A salvarlo ci hanno pensato pochi vignaioli lungimiranti: è una storia che abbiamo sentito tante volte, vero? Leggermente vinosa e di grande generosità, appaga il naso e il palato con una semplicità disarmante. L’assaggio premia chi ama i vini diretti e sono curioso di riprovarla, se Bacco vorrà, tra un anno o due, per verificare il ruolo del tempo sulle piccole asperità giovanili che ha dimostrato di avere. Virgulto sorridente.

Dai ripidi terrazzamenti valtellinesi un esempio di fedeltà territoriale: Uì Inferno Vigna 117 annata 2012. Un Valtellina Superiore, a mio parere, deve essere austero, quasi aristocratico senza perdere di vista la bevibilità. Il classico pugno di ferro in guanto di velluto (quanto mi piace questa metafora). Uì Inferno lo è: il rosso è rubino intenso, i profumi ricordano l’arancia sanguinella, la nespola europea e naturalmente una vasta gamma di frutti di bosco maturi ed energici. Il giusto tannino caratterizza il sorso, che rimane scattante nonostante il corpo potente. Made in Valtellina.

Menzione speciale per un nome che arricchisce molto, a nostro parere, il parco espositori di Golosaria: Gaspare Buscemi. È una persona che merita rispetto e molta attenzione: per le idee, per il coraggio con cui le espone e per la qualità dei suoi vini. Direttore tecnico del Consorzio del Collo e dell’Isonzo già negli anni sessanta, Gaspare Buscemi ha girato l’Italia e può restare in piedi per ore davanti al suo banchetto, a raccontare cosa ha visto e fatto. Ma la cosa che più di tutte sorprende è la sua estrema gentilezza, con cui introduce in modo disarmante lo spirito della sua produzione vinicola: “I miei vini non devono essere solo buoni. Fare vini buoni è facile, con le tecniche moderne. I miei vini devono trasmettere la natura, la cultura contadina e artigiana dei nostri territori“. 

Il fulcro della azienda Buscemi, a Cormons – rigorosamente a conduzione famigliare – è nel modo di concepire l’enologia: non basta produrre l’uva con criterio biologico, bisogna anche trasformarla secondo natura.  Qui entra in gioco l’abilità manuale del vignaiolo, ciò che rende i vini di Gaspare Buscemi in particolare vini d’artigianato: dalla vigna all’imbottigliamento, ogni operazione è eseguita con l’impiego di attrezzature  originali che assicurano condizioni idonee allo svolgimento dei naturali processi fermentativi. Si ottengono vini di grande sanità alimentare, quindi, non modificati nei loro valori originari, vini capaci di reggere gli anni. A Golosaria, ad accompagnamento di una piacevole ed istruttiva conversazione con il Maestro Buscemi, abbiamo provato diversi vini; vi segnaliamo il Braide Rosso 2005, da uve merlot, cabernet e refosco dal peduncolo rosso. Undici anni, già, ma ne dimostra molti meno. Brilla nel calice ed ha profumi di giovinetto, specie di prugne e spezie, trama vegetale e viva croccantezza. Ancora molto fresco, tannino non ancora risolto, qualche asperità ma anche tanta classe e soprattutto tanta prospettiva. Non sono vini in cui cercare perfezione tecnica. I vini Buscemi sono riflessi, profumi e sorsi in cui cercare l’essenza del vino e della mano che lo produce.