Da tempo sentivamo il bisogno di pubblicare un articolo sull’estetica del vino, sull’importanza del nome e dell’etichetta di un vino per l’appeal sul pubblico e quindi per le vendite. Per saperne di più abbiamo chiesto a Paolo Stecca, curatore del blog Il nome del vino di darci una mano. Abbiamo studiato un po’ e scelto qualche etichetta davvero bella e qualcuna… rivedibile. Ecco il risultato del nostro lavoro.
Tutti noi prima di uscire di casa facciamo quattro chiacchiere con l’armadio. Sì, insomma, qualche ragionamento su come vestirci. E non è solo una questione di previsioni del tempo. Pensiamo anche a dove stiamo andando e a chi dovremo incontrare. Cinema? Party? Andiamo a correre al parco? Al lavoro? A un appuntamento galante? A firmare un importante contratto? A bere un the con le amiche o un calice in compagnia? Di conseguenza l’abbigliamento prende una certa piega (“piega” non a caso). Innegabile. Anche i più “casual” un pensierino lo fanno. Starà bene la camicia blu notte con i pantaloni fumo di Londra? Il sandalo rosso col tacco basso sarà adeguato alle circostanze? 
Insomma, se non si vuole intraprendere una vita da eremita, qualche calcolo bisogna pur farlo. Parafrasando, ognuno di noi è un vino. Chi si sente barbera, chi verdicchio, chi malvasia. Dipende anche dagli stati d’animo. Un giorno si è frizzanti, l’altro meditativi come un nebbiolo di Langa. 
Tutto questo per dire che anche il vino ha bisogno di un vestito per presentarsi in pubblico. E anche in questo caso, come per i gustosi pettegolezzi sull’abbigliamento altrui, qualcuno ha sempre qualcosa da dire: “È un ottimo vino, ma che etichetta vecchia!“, come dire, “è una bellissima ragazza ma quel foulard giallo l’ha rubato a sua nonna“. In ogni caso, la sobrietà è sempre d’obbligo. Ad esempio ubriacarsi di colori non è una buona idea. Certo la grafica (il packaging-design, lo chiamano gli anglofoni) non è un’opinione. O forse sì. 
In generale è meglio farci caso, prima di mandare allo sbaraglio bottiglie senza ante né parte o con improbabili bacchi ebbri rimediati sul web. Basta guardare gli scaffali di un supermercato (ma anche di enoteche qualificate) perché l’occhio venga disturbato da qualche infelice scelta cromatica o di design. 
Il colpo d’occhio non inganna: la bellezza si fa notare. Bellezza è anche equilibrio, gusto, stile, intelligenza emotiva, sobrietà, sia pure estro e creatività. Insomma il vestito si può far confezionare su misura da un bravo sarto, oppure acquistare in un grande magazzino, ma si può anche prendere al mercato a poco prezzo o farselo rappezzare da una zia che si arrangia con le cuciture. Liberi tutti. Ricordando però che anche l’occhio vuole la sua parte. Non solo il naso e il palato. 

Come vestire un vino, quindi? Innanzitutto con un nome. Come si fa per i neonati. Un bel nome. Magari quello del nonno, ma un vero nome. Lo studio e la riuscita di un’etichetta dipende comunque da molti fattori: vitigno, regione, tradizione, storia aziendale, caratteristiche organolettiche, cultura locale, toponomastica, territorio, aneddoti, ma anche da precise scelte di posizionamento di marketing (a partire dalla famosa “macchia di colore”: Barilla al supermercato la trovi subito, solo lei è blu!) e dall’analisi, necessaria, di come si presenta la concorrenza diretta. 
Sono materie complesse il naming e il packaging, altrimenti sarebbero capaci tutti. E tornando alle affinità con la moda, non è facile essere semplicemente eleganti. Certo che se non si ha un innato gusto personale meglio affidarsi a una valida boutique. Le stime (esperienza professionale, non statistica) dicono che con l’etichetta giusta un vino può vendere automaticamente il 20% in più. A conti fatti conviene. Ma qui siamo in Italia, non a Londra. Cioè: siamo molto più creativi di loro, ma cadiamo nella tentazione di “buttarci via”. Di approssimare. Quasi sempre così. 
E se il vino rimane in cantina allora sarà colpa di Brexit, o dei russi, o del meteo inclemente di quella dannata annata, o colpa della GDO che mangia quote di mercato con il Prosecco da 2 euro. O sarà forse la conseguenza di scelte sbagliate e sballate? 

Certo che lo studio, fatto bene, di una nuova etichetta costa. Ma c’è da acquistare la nuova pressa pneumatica e allora sene fa a meno. Tutto corretto. La vita è una questione di priorità. Poi li vedi i vignaioli che di giorno, nel campo indossano casacche da lavoro e la sera, al party o alle degustazioni si presentano con la camicia Ralph Lauren, i pantaloni di Armani e le scarpe di Pollini. Naturalmente tutto ben studiato, coordinato e anche commisurato (e pagato) al marchio e al look che si vuole ottenere e mostrare. Come in ogni occasione della vita ognuno vende un po’ se stesso come un prodotto, anche chi è bravo a “fare lo spontaneo”. 

L’atteggiamento “naturale” è esso stesso un modo di comunicare. Questione di etichetta, quindi. Sempre. Diciamo allora che un vino potrebbe anche presentarsi nudo se è un vino eccezionale. Una volta superato l’imbarazzo della tavolata, assaggiandolo il problema è risolto: ottimo! Ma poi: “come si chiamava quel vino così buono che abbiamo bevuto l’altra sera?” “Mah… non mi ricordo… non c’era l’etichetta“. O peggio, l’etichetta c’era ma così anonima e il nome così astruso che non si ricorda nulla nessuno. Oggi si può in parte ovviare al problema con la app Vivino, le nuove tecnologie aiutano. In sostanza il vestito del vino qualcosa conta, qualcosa vale. 

Così come la storia di quel vino, la sua descrizione, il suo “modo di essere”, che nasce e cresce anche grazie la vestito che porta. Qualche esempio nel bene e nel… migliorabile? Bene l’etichetta del Vellodoro, Pecorino di Umani Ronchi: azzardata nei colori, simpatica, memorabile. Bella anche quella di Planeta per il Cabernet Burdese: colore, mistero, design accattivante, pulizia grafica. 

Passa la censura anche quella del Teroldego di Rocca Savina: moderna ma con sobrietà, cromatismi non scontati, si fa notare con garbo. Altro esempio di etichetta piacevole con un carattere diverso: il Cruvin dei Ruffino di Varigotti, il racconto della volpe e l’uva illustrato in modo scanzonato ma non troppo giocoso. 

E infine tra le belle viene sicuramente Vipra Rossa di Bigi  studiata nei minimi particolari, ottimo naming, design concettuale e attenzionale. Passando dalle gioie ai dolori (solo per fare qualche esempio, non vogliamo certo denigrare): una, quanto meno, curiosa etichetta per un Silvaner del Reno Affchen che vede una scimmia protagonista, inserita in una grafica d’antan. 

Segue un terrificante packaging per un Merlot Friuli che si chiama “Molino delle Streghe“. Si procede su strade migliorabili con il Refosco di Manzocco che accusa un’età e una grafica senza futuro. 

Viene poi una imbarazzante etichetta “artistica” per il Grillo Terre Rosse: no comment. 
E infine U Bastiò di BioVio che mette insieme una serie di elementi grafici, anche verticali, che non vanno molto d’accordo tra loro, per scelte cromatiche, visual e caratteri di scrittura. 
Per concludere, l’etichetta conta se non altro come corollario di tutto il lavoro che c’è dietro alla produzione di un vino, non solo per il risultati commerciali auspicabili. Ecco, il nome e il design di un vino sono un po’ come la ciliegina sulla torta. Come il rossetto sulle labbra. Come un fiore all’occhiello. Come la parola giusta al momento giusto. Come una rondine che fa primavera. Come un’aria di Mozart in mezzo al frastuono della città.