…sarà perché ho bevuto troppo poco aglianico che sono andato in
Basilicata, come dissi scherzosamente a Vito Paternoster.

Ci sono mille motivi per visitare la Lucania ma, una volta lì, approfondire
la conoscenza con il vitigno principe tra i rossi del Sud è doveroso quanto
piacevole.
In ogni carta dei vini dei vari ristoranti la fa da padrone. Fortunatamente il nostro Paese riesce ad essere ancora campanilistico quanto
basta e questo facilita le operazioni di valorizzazione dei prodotti del
territorio.
Ho avuto modo di assaggiarne diversi e anche di confrontarmi con due
sommelier in altrettanti ristoranti, che mi hanno un po’ fornito la loro chiave
di lettura sull’aglianico, sulle differenze tra le cantine, le tendenze in
atto.

Nel viaggio di ritorno ho scelto di compiere una leggera deviazione di percorso, andando a visitare la Cantina “Paternoster”, a Barile (PZ) sulle
pendici del Vulture
.
Nonostante non sia il brand più diffuso nelle carte dei vini
dei vari ristoranti, scelgo Paternoster perché, mi viene detto, sta mantenendo
l’aglianico fedele alla sue caratteristiche di sempre. Meno piegato rispetto
alle tendenze del momento, lo produce da 90 anni, in regime biologico,
lasciando che il vitigno parli di sé più di quanto possano fare le molte
pratiche di cantina possibili ed ammesse. Non solo, nella loro novantennale
esperienza sono stati culla e palestra per tanti attuali “aglianico boys”,  produttori che stanno contribuendo a
sviluppare le potenzialità di questo vitigno, i quali sono cresciuti
enologicamente tra i filari delle vigne di Paternoster.

Se vuoi degustare un aglianico che
sappia di aglianico, vai da Paternoster
.
Arrivo nella nuova cantina Paternoster in un giorno di luglio, col sole che
spadroneggia senza alcuna traccia di nuvola ad ostacolarlo, entrare nella moderna struttura è un sollievo.
Ad accogliermi c’è Raffaele, il cantiniere, che mi introduce nel suo
affascinante ambiente operativo, tra barriques, tini di legno, vasche in acciaio a
doppia camera dove avvengono le macerazioni, nastri d’acciaio dove avviene la
selezione delle uve migliori…

In pochi minuti arriva Vito Paternoster, il patron dell’azienda, nipote di Anselmo che
la fondò nel 1925.

Si instaura subito una bella atmosfera di disponibilità e dialogo, Vito è
informale ma non invadente, mi racconta
di come è nata l’azienda, di suo nonno Don Anselmo che iniziò la produzione e
di suo padre Pino che studiò a Conegliano, conobbe il prosecco e le botti di
rovere di Garbellotto, e volle portare nella sua terra le tecniche per produrre
il primo e i prodotti del secondo.
Racconta di come nelle cantine tradizionali, scavate nel tufo del Vulture,
la fermentazione faticasse a giungere a
termine a causa  delle basse temperature,
le botti fossero di castagno e l’aglianico si consumasse entro l’anno o poco
oltre. 
Quindi il salto di qualità: più conoscenza, strumenti moderni e lavoro
limitato in modo che l’uva fosse la vera protagonista.
Sono passati anni, decenni, e la casa produce anche bianchi come fiano, falanghina, ma anche moscato per una bollicina metodo Martinotti oltre ad un
singolare aglianico amabile, fuori dalla Doc per le sue caratteristiche, in
ricordo dei vini del nonno.
Proprio da quest’ultimo iniziamo la degustazione, non a caso chiamato
l’Antico”, un po’ anche per mia curiosità.
Una tipologia molto poco comune, assimilabile con qualche azzardo a metà tra
lambrusco e brachetto, appena frizzante, leggero, profumato, di un bel colore
rubino non troppo carico ma luminoso, ai confini col rosato chiaretto, lascia
una nota tannica finale che tradisce la sua 
provenienza.  Ebbe una discreta
fortuna intorno agli anni ’50 – ’60. Oggi è proposto come vino da aperitivo, simpatico,
beverino, fruttato, ben abbinabile con piatti che accosteremmo volentieri ad un
lambrusco.
L’intenzione ora è di conoscere l’aglianico per come è noto, passiamo quindi
al “Rotondo” del 2011, le sue vigne sono a circa 500 metri s.l.m, con
importanti escursioni termiche giorno/notte, il contatto con le bucce è di 10
giorni, e viene affinato per 14 mesi in barriques.

Il più “moderno” tra i grandi vini della casa, grandi doti olfattive di
frutta rossa e nera, fiori come la viola, ma anche liquirizia e spezie come
pepe nero. Nonostante la non lunghissima permanenza a contatto con le bucce in
bocca presenta ancora un tannino vibrante, asciutto, che consente (consiglia?)
di tenere la bottiglia in evoluzione ancora per qualche anno, in attesa anche
di possibili terziari che potrebbero facilmente svilupparsi. È molto
persistente ed offre una sua armonia grazie al buon tenore delle morbidezze.

A seguire c’è “Don Anselmo” 2010. In onore del nonno fondatore, il vino
principe.
Vigne a 600 metri, con escursioni termiche giornaliere che possono superare i
20°C(!), quindi grande concentrazione di aromi sulla buccia.
Permanenza sulle bucce per 15 giorni, dopodiché evoluzione in legno grande
per il 50% della partita ed in barrique per la restante metà. Segue un anno in
bottiglia prima della commercializzazione. Il colore è impenetrabile,
inchiostro puro nel bicchiere. È ancora
giovanissimo, con un tannino davvero potente ma fornito di profumi eleganti,
aromi di marasca, frutta sotto spirito, carrubo, pepe nero, note vegetali tra
il verde e l’essiccato.  Ancor più che
per il “Rotondo” vale il discorso della possibile lunga evoluzione in
bottiglia,  Lunghissima la persistenza, si
resta in compagnia dei suoi aromi dopo parecchi secondi.
Spontaneamente venne la domanda di quando si iniziò a creare le Riserve e
capire le potenzialità evolutive dell’aglianico.
Vito ci ha raccontato un fatto interessante, nelle varie verticali, sembra
che i suoi vini mantengano doti “di gioventù” 
per una quindicina d’anni
,  solo
dopo iniziano ad assumere quei connotati caratteristici di vini a lungo evoluti.
Ma le bottiglie che vanno a ritroso oltre il 2000 non sono molte.
Per questo è un vino da scoprire.
Non amo i paragoni tra i vini, sappiamo  che viene talvolta definito come ”barolo del
sud”, in questa frase secondo me c’è il ritardo con cui il sud Italia ha iniziato a
produrre vini di grande qualità da proporre al mondo con grandi risultati, rispetto ad esempio a Piemonte e Toscana.
Personalmente preferirei che si continuasse nello sviluppare una sua propria
identità, ci sono tutte le carte in regola per entrare a pieno titolo tra i
grandi vini rossi che contano.