di Alessio Turazza, giornalista del Gambero Rosso

Amo i punti di vista originali, le visioni marginali, i percorsi periferici e lontani dal mainstream. Per dirla alla Nanni Moretti: “Mi sa che mi troverò sempre d’accordo e a mio agio con una minoranza…”. Forse per questo a volte faccio fatica a comprendere certe tendenze dominanti o derive modaiole, che anche nel mondo del vino affiorano sempre più spesso.

Una di queste è una vera perversione del bicchiere: la pedofilia del vino. Si tratta di una predilezione per i vini giovani, troppo giovani, immaturi e acerbi.
A una degustazione di gennaio, mi sono imbattuto in alcuni bianchi del 2016, che francamente non ho avuto neppure il coraggio di avvicinare. Se per i rossi siamo ormai abituati ad avere pazienza, per i bianchi, purtroppo, le cose non stanno in questi termini.

È ancora molto radicata una mentalità che considera i bianchi vini da bere entro l’annata, anzi prima possibile. Un voluttuoso desiderio di vini Lolita, che temo non scaturisca dalla devozione nei confronti del celebre romanzo di Vladimir Nabokov ma ahimè da una semplice e reiterata cattiva consuetudine.

Un minimo d’affinamento in bottiglia fa bene a tutti i vini e ne migliora l’armonia complessiva. Se poi parliamo di vini particolarmente longevi, come il Verdicchio, il Soave, il Riesling, il Timorasso, solo per citarne alcuni, allora aspettare non solo si può, ma si deve! Solo dopo alcuni anni di riposo in bottiglia sapranno svelarci la loro vera personalità, il loro autentico carattere, sfaccettato, complesso, affascinante, ricco di sfumature e inattese nuances, finalmente disciolte nel bouquet dal lento trascorrere del tempo.

Lo so, servirebbe un cambiamento culturale da parte di tutti gli attori del mondo del vino, dai produttori, alla ristorazione, ai consumatori. Tuttavia qualcosa bisogna pur cominciare a fare per cambiare una cattiva abitudine. Lasciare tempo al tempo e cominciare a bere bianchi…
“Milf”. Il fascino della maturità vi conquisterà per sempre.

Il tempo è un concetto indissolubilmente legato al vino. Dal ripetersi immutabile del ciclo vegetativo della vite, al lento trascorrere del periodo d’invecchiamento in cantina.

C’è un altro vizio, se non di forma certo di fretta, che è nemico del vino e del piacere: la sboccatura precox.
Se per solito sono le donne a lamentarsi dell’inettitudine sessuale degli sprinter dell’orgasmo, in questo caso sono gli amanti del Metodo Classico a rammaricarsi di sboccature impazienti e premature.

Certo ci sono molti disciplinari che fissano i tempi minimi di affinamento, ma anche i minimi non è detto che siano sempre sufficienti. Quante volte ci capita di degustare un Metodo Classico ancora troppo giovane, che naviga in quella terra di mezzo tra la spensierata fragranza di uno Charmat e la matura complessità di un méthode champenoise.

Vini interrotti, strappati con violenza al dolce sonno sur lattes, al solenne notturno dei lieviti per finire nel bicchiere. Una sensazione che ha il sapore di un’occasione persa per impazienza, per troppa fretta, per ansia del risultato. Accade più spesso con il Metodo Classico prodotto con vitigni autoctoni, come se ci si potesse concedere qualche libertà in più rispetto all’ossequiosa riverenza dovuta alle nobili uve della regione della Champagne.

Invece, si tratta di varietà che non sempre manifestano un’istintiva vocazione alla spumantizzazione e che richiedono un lungo periodo di affinamento sui lieviti per permettere al vino di acquisire il giusto equilibrio e la perfetta armonia. Quindi trattenetevi, leggete un buon libro sul tantra e… non sboccate troppo presto!

Un tempo c’era il Recioto, poi settant’anni fa è arrivato l’Amarone e sulla sua scia il grande successo dei vini secchi da uve appassite. Oggi “…dall’Alpi alle Piramidi, dal Manzanarre al Reno…” è tutto un fiorire di vini Amarone Style.

Dietro questa perversa necrofilia dell’acino avvizzito c’è un non so che di decadente, che richiama alla memoria le atmosfere caduche ed effimere dei cesti di frutta delle tele del Caravaggio, le pagine de Il ritratto di Dorian Gray di Oscar Wilde, la scena di Shining in cui una donna invecchia velocemente sotto lo sguardo di Jack Nicholson o la passione del giovane Harold per Maude nel famoso film di Hal Asby.

Temo tuttavia che l’amore perverso per l’acino avvizzito e rugoso non sia mosso da suggestioni culturali, ma solo dal successo commerciale dell’Amarone e dal desiderio di emularne lo stile e i fatturati.
Nascono così vini troppo uguali, spesso figli di un gusto internazionale e americaneggiante, che annulla ogni differenza. Non conta più la storia di un territorio, la tradizione, i vitigni, ma solo il desiderio di fare soldi seguendo la strada più semplice e sicura.
Tutti i discorsi su tipicità e identità sono velocemente archiviati senza rimorsi.

Forse è tutto lecito in un mondo ormai dominato dall’unica ideologia rimasta: l’argent! Però, per favore, non parlatemi più di terroir.