Dopo le abbuffate natalizie – per chi le ha fatte – ricche di grassi è doveroso ricominciare la stagione degli eventi in un contesto quanto più naturale possibile: cosa c’è di meglio di una degustazione di vini… naturali?! Il calendario milanese ha proposto una degustazione con una selezione di Arkè, GluGlu Wine e Vite,  tenutasi domenica scorsa al ristorante Mangiari di strada, dello chef Giuseppe Zen. 
Due parole sul ristorante, che non conoscevo, le devo proprio dire: bello. Design “popolare” ma con stile, menù appesi al muro, lavagnette e fogli di carta assorbente per le novità del giorno. Tavoli in marmo e cucina a vista. Le pietanze offerte fanno venire voglia di provarle: la pecora assoluta nel pane naturale, la battuta al coltello con le puntarelle o le patate fritte di una volta. Cibo di strada, senza perdere una certa classe: lo proverò. 
E i vini? La diatriba sui vini naturali, sull’opportunità di chiamarli naturali e su cosa voglia dire “naturali” non la richiamerò qui perché è superfluo. Non è necessario: naturali o no, molti dei vini provati erano semplicemente buoni, alcuni anche tecnicamente perfetti, cosa non del tutto scontata soprattutto se si pensa che qualcuno va anche fiero delle proprie “puzzette” (a proposito: tollero una limpidezza non assoluta per via dell’assenza di filtrazioni, ma puzze, puzzette e similiari… anche no, il vino che puzza bevilo tu). I vini naturali – quindi – possono essere anche perfetti, signore e signori. Sappiatelo e, per favore, non sorprendetevene più. 
Vi presentiamo quattro aziende che ci sono piaciute. Naturali o no, ci sono piaciute, eccome!

Proviamo prima il Pietrobianco 2014, 70% di pinot bianco  e 30% di tocai bianco. In una annata non esattamente memorabile, Daniele Portinari da Lonigo, nel Vicentino, riesce a mediare i tratti erbacei del tocai con il pinot bianco di gradevole morbidezza e golosità. 
Con la Garganega 2014 i sentori fruttati di banana prima e la freschezza assoluta dopo rivelano una gioventù esuberante sì ma anche molto promettente. Molto piacevole nonostante gli spigoli e sapidità varietale in evidenza. 
Se qualcuno ha ancora dei dubbi sulle potenzialità del timorasso provi uno qualsiasi di questi vini, ottenuti da vigne anche molto vecchie a Costa Vescovato. 
Terre del Timorasso 2012 è personale, eppure collettivo, universale. I sentori di pietra focaia si alternano al miele e all’arancio. Un cenno etereo fa capolino di tanto in tanto e fa presagire un futuro radioso: palato netto e preciso, mai banale e molto, molto dinamico. 
San Leto 2011: il primo di una mini verticale che ha attraversato le annate 2006, 2004, 2001. Nel 2011 il naso è caratterizzato da frutta matura e sbuffi gessosi, testimoni di una mineralità sopraffina. Ha fatto dodici mesi sur lie, una sosta che gli ha conferito profondità intensa e maturità. E poi il Giallo di Costa 2011: qui vi è tracce, anche evidente della macerazione, percepibile sin dal colore. Il nerbo e l’intensità olfattiva anticipano aromi quasi da riesling: fungo, terra, ancora agrumi. Palato seducente e non per questo ruffiano. Finale pulp, mai domo.

Da Olek assaggiamo la Barbera d’Alba 2014, da magnum: sulle barbera – lo sapete – sono piuttosto esigente. Ebbene, in questa ritrovo il sorso rustico figlio del vitigno, con la struttura tipica della denominazione. 
I profumi sono complessi, ben definiti su note di lampone e confetture. In bocca si avverte continuità fruttata e concentrazione vigorosa. Finale piacevolmente ammandorlato. 
Concludiamo con Luì 2012, Montepulciano d’Abruzzo dove legno e acciaio sono sapientemente dosati. 
Il quadro olfattivo tipico di violette, more e inchiostro è arricchito da una lieve e costante carezza balsamica. Bevibilità non scontata e piacevolezza ne fanno un compagno perfetto per una bistecca o una bella tagliata.