Il Veneto fonda la propria identità vitivinicola a cavallo di una doppio binario: quello di prima regione in Italia per produzione e quello di luogo di elezione per i vini fini delle zone nobili di Valpolicella, Gambellara, Soave e Garda. Un corto circuito apparentemente paradossale che si scioglie, tuttavia, quando si ha l’occasione di incontrare aziende illuminate, che producono vini di territorio e tradizione, apportando una peculiare personalizzazione. È il caso di Garbole, che ho avuto il piacere di conoscere – è proprio il caso di dirlo – qualche sera fa in occasione di una presentazione al ristorante Tre Cristi di Milano. Garbole è una realtà plasmata dalla volontà dei fratelli Ettore e Filippo Finetto, che dal 1994 producono in Valle d’Illasi e realizzano il loro sogno, sul sentiero di una filosofia indipendente e identitaria:
Le persone prima del vino, il valore prima del prezzo, il vino prima dell’etichetta.
Le vigne aziendali insistono sul territorio tra Tregnago e Cazzano di Tramigna: venti ettari e “solo” 25.000 bottiglie per quattro etichette. Packaging e naming strizzano l’occhio al mercato estero: minimaliste e indefinitivamente cinematografiche, le etichette di Garbole catturano l’attenzione.
E i nomi per i vini coniugano la semplicità lessicale all’artificio di un complemento, l’aggiunta di una “H”: Heletto Rosso Veneto per esempio, provato nella sua versione 2012. Blend di corvina, corvinone e altre uve autoctone, manifesta dinamica complessità olfattiva. Mi piace da subito, è empatico, spavaldo. Necessita, forse, di un lieve abbassamento di temperatura, ma è un dettaglio che non lo penalizza. Al naso c’è ribes e fragola, spezie d’oriente, menta e liquirizia. In bocca è rotondo, vellutato e pieno, tannino presente ma integratissimo: essenza di composita semplicità.
L’amarone non è il mio vino, non lo sceglierei al ristorante, a meno di non trovarmi davanti a un menù perfettamente adeguato. Ho degustato Hatteso 2011 Amarone Riserva, senza preconcetti: mi ha sorpreso. A partire dal colore, rosso rubino vivace e intenso, un bel biglietto da visita. E il naso: vitale e instancabile davvero, con sbuffi di amarena sciroppata, humus, cuoio, tabacco e polvere di cacao. Il sorso è opulento, enfatico ma mai statico. La presenza alcolica è ampia e agevola le sfaccettature di un vino completo, profondo e lungo.
Un calice così necessita un abbinamento preciso: le carni di cacciagione rappresentano l’optimum per valorizzare un vino di questo tipo. Tuttavia mi permetto di consigliare un’associazione mutuata dalla tradizione gastronomica veneta: la pasta e fagioli e la pastissada de caval.
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