Il sole tiepido che in questi giorni sta scaldando il mezzogiorno ci ricorda che è quasi tempo dei grandi eventi di primavera. Ieri è iniziato Prowein, e dal 15 al 18 aprile sarà di scena il VinItaly, la più grande, chiacchierata, amata e odiata fiera del vino del mondo.
Con Anteprima Fiere Vino il Gambero Rosso ha organizzato un tour itinerante che dal 26 febbraio al 14 marzo ha illustrato agli appassionati e addetti al settore di Lecce, Milano, Roma, Napoli e Torino le nuove etichette che saranno presentate alle fiere di Düsseldorf e Verona. Lunedì scorso è stata la tappa di Milano a… tenere banco! Un wine tasting con oltre 170 etichette presenti e alcuni ospiti di eccezione: l’Istituto Trento DOC, il Consorzio di tutela vini del Sannio e il Consorzio di tutela vini di Montefalco.
C’era molta curiosità nell’aria e noi stessi avevamo voglia di anteprime: per curiosità e desiderio di confrontarsi, con i vignaioli e il pubblico.
Il banco d’assaggio
Il primo assaggio è stato per un rappresentante dell’Istituto Trento DOC: la cantina Zeni ha calato l’asso con Maso Nero Dosaggio Zero 2011. Bottiglia esteticamente minimal, con diciture calligraphy. Una chicca, direbbe qualcuno: pinot bianco in purezza, prodotto in sole 954 bottiglie, sboccatura marzo 2016. Nella terra dello chardonnay, potrebbe sembrare un azzardo, ma non lo è. Il vino base fermenta e sosta in barrique fino al tiraggio; seguono 24 mesi di affinamento sui lieviti.
Il risultato è un prodotto di buona finezza, in grado di sorprendere il degustatore. Sin dal colore, particolarmente luminoso, passando dall’effervescenza, indubbiamente fine. L’impiego del legno è percepibile ma non forzato: evidente l’obiettivo di rafforzare il bouquet di un vitigno tutto sommato delicato. Naso compatto, quindi, con sfumature odorose di caffè, frumento e orzo. Sorso avvolgente più che muscolare, decisamente secco – ca va sans dire – rapido, salino e con un finale agrumato che sa di buccia di limone: decolla e appaga.
A seguire ci siamo fatti ingolosire dalla certezza qualitativa della Tenuta Alois Lageder: una cantina a conduzione familiare riferimento reale per approccio naturale, rispetto della terra, vision. Lageder non è solo sinonimo di buoni vini, ma è testimone importante della biodiversità altoatesina, coniugata alla coltivazione biodinamica certificata Demeter.
Di più: la cantina collabora da decenni con i piccoli viticoltori provenienti da diverse zone dell’Alto Adige, rafforzando in questo modo il già intenso rapporto col territorio. Krafuss 2014 è un pinot nero in purezza, proveniente da uve coltivate a 450 metri sul livello del mare. Rubino luminoso e nobile, come prezioso è l’insieme dei profumi, disposti dalla natura su uno spartito di piccoli frutti rossi, cannella, pepe rosa, pietra focaia, tostatura, lieve sentore animale e sbuffi minerali. Che sia pinot nero di razza lo si capisce soprattutto al palato, per la raffinatezza con la quale lo avvolge, scandendo con precisione ora i ritorni fruttati, ora i tocchi balsamici. Giovane, certo, ma già pronto e tuttavia di grande prospettiva.
Il terzo assaggio al banco di degustazione è passato dall’Umbria, con l’azienda Omero Moretti, altra piccola realtà a conduzione familiare e con molte cose da dire (e far provare). Gli ettari a vigneto dell’azienda sono 14, ai quali si aggiungono 16 ettari di uliveti, condotti in regime biologico sin dal 1992.
Montefalco Rosso 2015 è un blend di sangiovese, sagrantino e altri vitigni. Ci è piaciuto, per schiettezza e per l’intensa e complessa impronta olfattiva in cui si susseguono le sfumature di violetta, di frutta rossa in confettura, di cipria e di corteccia. Al palato la trama tannica è ben presente anche se perfettamente integrata nella corposa struttura del vino.
Il seminario sulla Falanghina del Sannio
Nel medesimo ambito della sessione milanese dell’evento, si è svolto il seminario interamente dedicato alla falanghina del Sannio. A far da Cicerone, conducendo i partecipanti in questo viaggio ideale alla scoperta delle poliedriche sfaccettature del vitigno e dell’omonimo vino, ci ha pensato Marco Sabellico, redattore del Gambero Rosso e curatore della guida Vini d’Italia.
Perché la falanghina?
Perché è il vino bianco maggiormente prodotto in Campania; perché riscuote sempre maggiori consensi sul mercato nazionale, cominciando a suscitare interesse anche a livello internazionale; perché, grazie all’opera di viticultori impegnati a valorizzarne al meglio le peculiarità, è riuscita a lasciarsi alle spalle la fama di vinello di pronta beva, per diventare una delle migliori espressioni del territorio sannita; perché può prestarsi a interpretazioni diverse, che vanno dalla versione ferma a quella spumantizzata, sino ad arrivare al passito; perché è un vino “equilibrato” che, rifuggendo da caratteristiche organolettiche estreme o irruente e da velleità in termini di opulenza gustativa, conquista per il suo timbro delicato e fresco; perché risponde al gusto ma non alle mode; perché piace e basta.
Per capire meglio il vino partiamo dal vitigno.
Presente nell’area agricola del Sannio da tempi immemorabili, la falanghina (dal greco “falangos” che indicava il palo di sostegno della vite) è un vitigno a bacca bianca molto generoso, con una produttività costante e una notevole capacità di resistenza agli agenti esterni nocivi, siano essi parassiti che condizioni climatiche non particolarmente favorevoli. Un vitigno su cui l’economia agricola del beneventano ha potuto fare affidamento anche se, sino alla fine degli anni settanta, ha trovato un impiego non sempre nobilitante o comunque capace di esaltarne al meglio le caratteristiche (elaborazione di “vini da taglio” o distillazione). Una produzione poco interessata a “frenare” l’elevata resa del vitigno e improntata più sulla quantità che sulla qualità.
Ma ecco che, proprio sul finire degli anni ’70, la falanghina va alla riscossa, iniziando a riconquistare pian piano la propria identità. Il primo a credere nelle potenzialità di questo vitigno è stato l’Ing. Leonardo Mustilli. Infatti, nel 1979, proprio ad opera dalla famiglia Mustilli di Sant’Agata dei Goti, la falanghina viene per la prima volta vinificata e imbottigliata in purezza.
Nel corso degli anni successivi i viticoltori, grazie anche al supporto di validi enologi, all’attività di sostegno svolta dai consorzi di tutela e all’adozione di disciplinari capaci di circoscrivere la produzione della DOC falanghina del Sannio ai territori più vocati, si comincia a cambiare mentalità e prospettiva. Si opta per modalità di allevamento funzionali a produzioni di qualità e si presta maggiore attenzione alle tecniche di vinificazione.
Oggi la falanghina può, a ragione, considerarsi vitigno-vino simbolo del Sannio.
La DOC Falanghina del Sannio con le quattro sottozone (Solopaca, Guardiolo, Taburno, Sant’Agata dei Goti) è capace di dare voce ad un suolo variegato che è insieme calcareo, vulcanico e argilloso.
E allora assaggiamola questa falanghina del Sannio e scopriamone la tempra!
Quella della cantina Cautiero, la Fois ’17, è una falanghina dal profumo fragrante e fresco di fiori bianchi, di limone e bergamotto. Racchiude un’anima salina, che se al naso ricorda la salsedine, al sorso è sapidità pura. Lineare e tagliente, chiude sul frutto.
Sfumature iodate e una leggera nota fumè si riscontrano invece nella Falanghina del Sannio Taburno ’16 di Fontanavecchia.
A seguire, la Falanghina del Sannio Senete ’16 della cooperativa La Guardiense la cui conduzione enologica è affidata a Riccardo Cotarella. Questo vino, facente parte della selezione “Janare”, sembra concepito per suscitare una certa attrattiva da parte del mercato internazionale: le uve sono criomacerate per ottenere una maggiore estrazione in colore e struttura e la maturazione in acciaio è prolungata per circa 3 mesi. Il profumo è intenso e vola dal fiore alla frutta a polpa gialla, per poi arricchirsi di sentori di erbe aromatiche che vibrano su uno sfondo odoroso salmastro. La persistenza c’è, e i 3 bicchieri del gambero rosso pure.
E dai sentori croccanti di glicine e nespole della Falanghina del Sannio Svelato ’16 di Terre Stregate, ecco che rispunta la nota di affumicatura nella Lazzarella ’16 della Cooperativa Cecas – Vigne Sannite.
Adesso fermiamoci tutti un attimo, è il turno della Falanghina del Sannio ’16 di Mustilli: una falanghina timeless, classica che più classica non si può, con le tipiche note fruttate e floreali e una salinità che conquista il palato.
Dalla classicità si passa poi a versioni più audaci come la Falanghina del Sannio Cesco dell’Eremo ’16 di Cantina del Taburno. Una vendemmia tardiva con zuccheri integralmente svolti, sottoposta a lieve macerazione pellicolare e fermentata in botti di rovere. Erbe aromatiche, camomilla, mandarino e frutta secca fanno parte del bouquet aromatico di questa affascinante falanghina.
La Biancuzita ’15 di Torre a Oriente libera invece un elegante e intensa essenza di tiglio e di citronella, tra cui fa capolino il profumo di frutti dolci come la percoca.
Ultima, ma non per questo meno importante, la Falanghina del Sannio KYdonia ’15 dell’azienda Castelle, che cattura all’istante già solo per le ammalianti tonalità dorate frutto della macerazione pellicolare. Affinata in barrique per sei mesi, esplode in un pot-pourri di note agrumate in cui è possibile riconoscere l’arancia vaniglia, e in sbuffi dolci di tiglio e miele. Il palato è irretito dalla morbidezza e dalla persistenza. Un gran finale!
Se la falanghina è la regina del Sannio, non resta quindi che augurare: lunga vita alla Regina!