Cheese, l’evento biennale organizzato da Slow Food Italia, non è mai stato un evento semplicemente indirizzato alla esposizione e alla vendita di formaggio.
Sin dal suo concepimento, nel 1997, l’obiettivo è stato quello di sostenere le produzioni artigianali di qualità ponendo l’accento sul legame con il territorio, il benessere animale e il rispetto ambientale.
In poche parole la finalità è stata – ed è – quella di fare cultura casearia, attualizzando l’evento con argomenti a volte scomodi ma certamente di grande importanza.
Giunto alla sua undicesima edizione, Cheese, svoltosi a Bra e a Pollenzo dal 15 al 18 settembre, ha segnato quest’anno più che mai il solco del dibattito che è sì principalmente caseario ma è senza dubbio sovrapponibile ad altri ambiti. Basti pensare che nello Spazio Libero, oltre ai formaggi naturali – originati senza l’ausilio di fermenti industriali – erano presenti produttori di salumi e pane, pizzaioli e birrifici, tutti accomunati dal fatto di realizzare prodotti “liberi”, privi per esempio di nitriti o nitrati (nel caso dei salumi) o provenienti da lievito madre (nel caso del pane o della pizza). Tutti con qualcosa da raccontare.
Tra i numerosi temi di Cheese 2017 segnaliamo il Premio resistenza casearia, assegnato quest’anno anche ai produttori Luigi De Carolis e Paola Capanna, rappresentanti delle regioni dell’Italia centrale colpiti dal terremoto nel 2016 e l’importanza dei lavoratori extracomunitari nella filiera casearia, tema trattato tra gli altri da Cécile Kyenge in un incontro domenica pomeriggio. Su questo argomento mi ha sorpreso un dato, netto e incontrovertibile: nelle regioni italiane ove si pratica la pastorizia i pastori immigrati raggiungono percentuali altissime, mai sotto il 35% e fino al 90%. Senza migranti i nostri pascoli sarebbero scomparsi.
Tanta attualità, quindi, e un tema centrale: il latte crudo
Per la prima volta i formaggi del Mercato di Cheese erano esclusivamente prodotti con latte non soggetto a pastorizzazione. Il segnale che si è voluto ha voluto dare è chiaro: promuovere i formaggi a latte crudo, una battaglia che Slow Food conduce già da diversi anni. Perché è così importante?
Innanzi tutto una risposta di tipo qualitativo: i formaggi a latte crudo sono più buoni, la diretta conseguenza del fatto che sono realizzati con passione sincera, con tecniche artigianali fedeli rappresentanti del territorio dal quale provengono e di stili di vita genuini.
La pastorizzazione del latte elimina i batteri patogeni ma con essi anche molte delle caratteristiche proprie che lo rendono unico: di conseguenza i formaggi che ne derivano sono omologati, privi del legame con il territorio e replicabili ovunque. Nel latte crudo c’è la vita.
I caci a latte crudo oggi rischiano l’estinzione, poiché la pressione della logica industriale sollecita l’uso di latte sterilizzato.
Il tema è strettamente legato a un altro argomento gettonatissimo: la biodiversità. Sul punto si è espresso Carlo Petrini, che così sintetizziamo:
La biodiversità non è nostalgia dell’antico, ma costruzione del nuovo.
La materia è frequentemente dibattuta anche nel mondo wine: potremmo fare quasi un parallelismo tra casari che producono formaggio con latte crudo e vignaioli che si ostinano – per fortuna, beata testardaggine – a vinificare vitigni autoctoni delicati, dalla resa non sempre soddisfacente e poco ricercati dal mercato. Vini e formaggi poco mainstream, quindi, ma che più di altri hanno il potere di piacere davvero, in quanto genuini.
A Cheese si è parlato dell’importanza dell’etichettatura: dallo scorso aprile è obbligatorio indicare sui prodotti lattiero-caseari il luogo di mungitura, di condizionamento e di trasformazione della materia prima, cioè il latte. Questa modifica tuttavia non è sufficiente, Slow Food richiede da tempo un’etichetta narrante che indichi molto di più: il territorio, la razza e l’alimentazione dell’animale.
Protagonisti di questa edizione di Cheese sono stati i raw in the U.S.A., i formaggi a latte crudo statunitensi. Ancora Petrini:
Nell’edizione 2001 lo stand statunitense era privo di prodotti poiché la legislazione USA allora non permetteva l’esportazione di caci a latte crudo. Ora questa battaglia è vinta.
Ne ho voluto provare un paio: mi ha impressionato favorevolmente il Marieke Gouda 9/12 mesi, formaggio del Wisconsin ottenuto da latte proveniente da mucche non trattate con ormoni artificiali. Di primo acchito è simile a un cheddar, ma durante la masticazione esprime tutto il proprio sapore, energico ed equilibrato. La consistenza è appagante e il gusto è piuttosto persistente.
Cheese 2017 si è chiuso con oltre trecentomila visitatori: una folla enorme che ha invaso pacificamente Bra e Pollenzo e che ha potuto visitare gli stand di oltre cinquanta Paesi provenienti dai cinque continenti. Alto il tasso dei visitatori stranieri: un segnale importante e una tendenza che certamente non si arresterà in questa edizione.
Non ci resta che segnare sul calendario la prossima edizione, prevista per il 2019.
Le battaglie non sono finite. Arrivederci, Cheese!