della Spagna – convenzionalmente da Irún a Santiago de Compostela – non accettai subito. In seguito, spinto da una (in)spiegabile voglia di avventura, decisi di raccogliere l’invito e vi assicuro che è stata un’esperienza positiva, affascinante, faticosa ma ben ripagata.
Gli amici che mi hanno accompagnato avevano fatto il Cammino altre volte e hanno ben programmato tappe e relativi sforzi: partiti da Avilés, nelle Asturie, si giungeva al traguardo giornaliero dopo circa 25 chilometri, fino a fermarci, cinque giorni dopo, a Ribadeo, in Galizia.
Lunghi sterrati di campagna, interrotti da tratti urbani e numerosi saliscendi boschivi: e la vista dell’oceano, tra una salita e l’altra, a premiare l’impegno del moderno pellegrino.
Potrete ben capire che a cena la fame poteva essere tanta, persino troppa, specie se a pranzo avevi avuto la semplice compagnia di una porzione di tortilla e una caña, una birretta alla spina.
A me, comunque, i pretesti per mangiare e bere bene non sono mai mancati. E siccome ero in compagnia di buone forchette, ne è venuto fuori un viaggio certamente di grande dispendio fisico, pari solo all’appagamento enogastronomico.
Così ho conosciuto la già menzionata tortilla, vero comune denominatore di tutto il viaggio, presente in tutte le tappe: una frittata di patate spessa e soffice, con numerose varianti. La sua compagna ideale è la caña ben fredda, nella sua versione da mezza pinta o il cañon da una pinta.
La tortilla è universale: può essere servita come tapas (una piccola porzione, da aperitivo) o come racione, piatto principale di quantità maggiore. Nei bar della Spagna del nord si servono anche i celebri pinchos: sono piccoli stuzzichini elaborati, spesso di pesce, accompagnati da una fetta di pane.
I miei amici mi avevano avvisato: le porzioni qui sono enormi. Avevano ragione. Ci abbiamo impiegato due giorni a comprendere che al ristorante non era salutare ordinare pensando alle dosi italiane: e dire che di fame ne avevamo sempre tanta!
Il chuletón
Ero partito dall’Italia con un obiettivo gastronomico ben preciso: mangiare il chuletón, una costata di manzo allevato all’aperto simile a una fiorentina, ma più grassa e saporita, servita spolverata da grani di sale grosso e da cuocersi al tavolo su pietra ollare o piccola brace. Prima cena, primo chuletón e primo vino: Rioja Contino Reserva 2010.
Nitidamente fruttato al naso, dall’ampia e variegata speziatura, mi ha sorpreso per corpo e slancio da giovanotto. Il tannino è ben presente ma viaggia di pari passo con l’alcol e la carezza glicerica, come un surfista sulle onde dell’Atlantico. Risulterà uno dei vini più graditi dell’intero viaggio.
Quotidianamente ci concederemo Reserva di Rioja, zona vocata specialmente in vini rossi da uve tempranillo: la nostra Anna Gelmetti ne ha parlato a lungo in questo articolo. Sono vini di stampo bordolese, poiché i viticoltori di Bordeaux con l’arrivo della prima fillossera si spostarono in Rioja, esportando l’imprinting che ancora oggi ne caratterizza la produzione.
Le similitudini finiscono qui, perché i Rioja quasi mai raggiungono la profondità gusto-olfattiva dei cugini francesi, ma rimangono lo stesso dei gran bei vini, specie quando non hanno risentito della prolungata maturazione in botte, pratica molto diffusa a queste latitudini.
Le anchoas
La zona del Cantabrico è nota in tutto il mondo per le anchoas: sono acciughe raffinate, servite a filetto da sole o abbinate al queso de cabra, formaggio di capra. Io amo le acciughe e devo riconoscere che tutte quelle assaggiate in questa zona hanno confermato che la fama che le precede non è esagerata: hanno una consistenza fine e anche il sapore è più delicato.
Le ho provate in abbinamento con il vino bianco che da quelle parti va per la maggiore: l’Albariño, ottenuto dalla omonima uva galiziana che ha trovato nella zona di Rías Baixas il proprio
habitat. Non sono vini da strappamutande però hanno una buona qualità media, caratterizzati da intensa acidità e spesso salina mineralità.
Tra questi ricordo con piacere O Rosal 2016 di Santiago Ruiz, la bodega che porta il nome di uno dei padri della denominazione. O Rosal è un blend di albariño, loureiro, caiño bianco, treixadura e godello, in pratica tutte le uve bianche presenti sul territorio.
L’olfatto è espressivo, fondato su un ventaglio di agrumi, frutti tropicali e minerali. Il sorso è succoso, appagante e dissetante: non sono un esperto di questa tipologia ma mi sento di poter dire che rappresenta bene il territorio di provenienza, soprattutto perché a un buon corpo associa grande bevibilità. È una di quelle bottiglie che finisce prima che tu te ne accorga.
La fabada
Tra me e la fabada asturiana è stato subito amore: originario della Spagna del nord, è un piatto che si è diffuso rapidamente in tutto il Paese. È una zuppa di fabes de la granja, i fagioli bianchi asturiani, cucinati con chorizo (salsiccia asturiana), morcilla (sanguinaccio stagionato), pancetta e prosciutto. Al ristorante Casa Lin di Avilés me ne hanno servito una direttamente in casseruola di alluminio: estremamente proteica, certo, ma la gratificazione non è stata da meno!
L’abbinamento è stato garantito dal Finca Monastero 2010 di Baron De Ley: l’etichetta, come potete vedere, è tutt’altro che sobria. Anche in questo caso ci troviamo di fronte a un blend, tempranillo e altre varietà non specificate. L’approccio olfattivo è molto intenso e il forte legame con il rovere è percepibile con facilità.
Non è un male, perché non sono solo gli aromi vanigliati e speziati a farsi sentire, corredati da tanta frutta nera, note tostate ed eteree. A tanto naso corrisponde una bocca potente, austera per certi versi, che si sofferma un po’ per via della grande struttura ma che accarezza il palato con piacevolezza e non fa mancare un corretto equilibrio tannico.
I percebes
Il nostro piccolo racconto si conclude con una prelibatezza: i percebes. Apparentemente sembrerebbero molluschi dall’aspetto raccapricciante, in realtà sono crostacei cirripedi che vivono esclusivamente in Galizia, Portogallo e Marocco. Si riproducono sulle alte scogliere atlantiche e si dividono principalmente in due categorie: i più gustosi sono i percebes de sol, esposti al sole e più corposi dei percebes de sombra, perennemente sotto il livello dell’acqua.
Per raccoglierli il percebeiros è costretto a pericolose discese con la corda lungo la scogliera, tra le onde violente del mare: è un’operazione che non di rado riserva incidenti, anche gravi.
È comprensibile, quindi, che il prezzo dei percebes sia parecchio alto: in Galizia un piattino di 250 grammi lo abbiamo pagato 25 euro. Si cucinano bollendoli in acqua e sale e si mangiano tiepidi, spezzandoli con le mani, estraendo la polpa succhiando il corpo del crostaceo. Non avevo mai mangiato nulla di simile: non è un sapore forte, tuttavia potrebbe non piacere a tutti. A me sono piaciuti moltissimo.
Li ho accompagnati con un vino espumoso, il Brut Nature di Mar de Frades, albariño in purezza: è un metodo champenoise, semplice e fresco, potrei definirlo un vino glu glu, da bersi con la cannuccia. Forse i percebes avrebbero meritato una bollicina più strutturata…
Avrei ancora potuto scrivere delle sidrerie, dei postres e dei formaggi provati, ma avrei abusato della pazienza del lettore. Il mio Cammino di Santiago, quello eno-gastronomico, finisce qui.
Quello reale può darsi che ricominci, l’anno prossimo. Hasta luego!