Lo confesso. In estate mi capita sempre più spesso di preferire un boccale di birra a un calice di vino. Forse è un fatto di temperature, di cibi o semplicemente una banale congiunzione astrale nell’universo delle mie preferenze. Fatto sta che la birra esercita di recente un’attrazione alla quale spesso non posso resistere.
E sempre con maggiore curiosità mi avvicino al mondo brassicolo: la chiacchierata dello scorso settembre con Teo Musso (che potete rileggere a questo link) fu per me la conferma che la birra meritava maggiore attenzione. La birra mi chiama. E io spesso rispondo.
Gli stili della birra
Si fa presto, però, a dire birra: come per il vino, ci sono numerose varianti che riguardano la produzione, gli ingredienti utilizzati, il gusto finale. Sono i famosi stili, riconosciuti internazionalmente dal Beer Judge Certification Program (BJCP), un organismo costituito nel 1985 allo scopo di promuovere la cultura e l’apprezzamento della birra, dell’idromele e del sidro e per riconoscere le capacità di degustazione e valutazione.
Il BJCP ha tre funzioni fondamentali: forma esperti qualificati partendo da un programma standard e fornisce giudici ai concorsi di tutto il mondo, sia essi privati che commerciali. Ma soprattutto redige una lista degli stili riconosciuti, la BJCP Style Guideline, una guida per tutti gli homebrewers desiderosi di produrre birre che rispettino le caratteristiche dello stile ricercato. Attenzione però: la BJCP Style Guideline non vuole erigersi a manuale dogmatico da seguire a tutti i costi pena la scomunica. È solo una lista di suggerimenti, adottabili soprattutto nei concorsi per facilitare la valutazione dei candidati, tanto è vero che non tutte le birre rientrano negli stili contenuti nella guida.
Ogni stile viene presentato con uno schema composto da dieci sezioni: tra cui la valutazione organolettica, gli ingredienti, la storia e la parte tecnico-numerica, che riporta i valori della birra in fatto di gravità originaria e finale, amaro, colore e alcol.
Nel suo ultimo aggiornamento del 2015 la BJCP Style Guideline ha individuato 34 macro-stili di cui 27 “classici” e 7 definiti “Specialty-Type”. All’interno di ciascun stile descritto vi possono essere diversi sotto-stili, anche numerosi: è il caso della I.P.A., che ha ben 8 sotto-stili.
Gli acronimi
Il mondo della birra è fortemente intriso di tradizione anglosassone, dove si fa un uso degli acronimi a volte francamente eccessivo. Ve ne voglio elencare qualcuno, tra i più noti o curiosi. Chissà che non vi venga utile, uno di questi giorni.
I.P.A.: è una sigla piuttosto nota che sta per India Pale Ale. Di origine britannica, appartenente alla famiglia delle birre ALE, ha origine nella prima metà del 1800, con la necessità dei mastri birrai inglesi di aumentare le quantità di luppolo (detentore di capacità antiossidanti) e di alcol, affinché la birra potesse raggiungere le colonie in India senza decomporsi. È uno degli stili più diffusi al mondo, tanto che viene a sua volta declinato numerosi varianti: American Pale Ale (A.P.A.), ancora più luppolate o Imperial I.P.A., maggiormente alcoliche.
E.S.B.: altra sigla, altro stile. Significa Extra Special Bitters: sono birre appartenenti alla famiglia britannica delle Bitter. A bassa carbonatazione, vanno servite giovani, a temperatura di cantina. Il colore può variare dall’oro scuro al rame, a dispetto del nome non sono molto amare poiché puntano soprattutto all’equilibrio gustativo.
S.R.M.: andiamo nel tecnico. È l’acronimo di Standard Reference Method, la scala impiegata per il colore delle birre e dei malti. In Europa si utilizza l’E.B.C., l’European Brewers’ Convention. In entrambi i casi più bassi sono i valori più la birra è chiara.
E.K.G.: neanche i luppoli sono rimasti fuori dalla battaglia degli acronimi. Significa East Kent Golding ed è uno dei luppoli più utilizzati e di successo.
I.B.U.: International Bitterness Units. Io l’ho imparato in fretta, perché la valutazione della birra, per me, passa sempre da quanto è amara. È la scala per misurare l’amaro da luppolatura: un valore più alto di I.B.U. corrisponde maggiore concentrazione di amaro. Il solo valore numerico, tuttavia, non sempre è significativo: analogamente al vino la percezione gustativa dell’amaro in una birra è condizionata da altri fattori, come il malto, per cui birre con I.B.U. elevato potrebbero risultare meno amare di birre con I.B.U. più basso. Il valore massimo convenzionale è 100, oltre al quale la bocca non percepisce la variazione.
Assetato portò la pinta alle labbra, e, come il suo fresco ristoro cominciò a lenire la gola, ringraziò il cielo che in un mondo così pieno di malvagità ci fosse ancora una cosa buona come la birra.
Rafael Sabatini
Dopo tutto questo parlare di birra, mi è venuta una gran sete. Corro a farmi un boccale!