Si può essere #personedivino senza essere un produttore? O un sommelier? O – che so – un enologo, un agronomo, un cantiniere? Sì, se metti il vino al centro del tuo progetto e dei tuoi pensieri. 
Sì, se riesci a cogliere le sfumature più delicate tra le tante del mondo del vino e riesci anche nella titanica impresa di esprimerle arricchite dal tuo stile personale. 
Il mondo 2.0 è una valanga di parole spesso senza anima, e da questa slavina verbale e verbosa è difficile emergere. C’è riuscita Maria Cristina Sarò, autrice teatrale messinese in uscita con il suo primo romanzo, Campanella, edito da Torri del Vento. 
Il romanzo è interamente ambientato in Sicilia, in una zona che gli appassionati di vino conoscono bene: i filari di Menfi, nel vigneto più grande d’Europa, luogo simbolo di una trasformazione radicale che vede le origini molti anni fa. La trama vede come protagonisti Campanella e Ina: Campanella è un giovane avvocato, Ina appartiene alla famiglia mafiosa che controlla il territorio e l’economia del territorio. 

Nel corso di un processo in cui Campanella è coinvolto, Ina scompare per poi essere ritrovata in mare, senza vita. Da questo momento le storie dei protagonisti s’intrecciano come le viti e le cinque fasi del vino diventano le fasi della vita di Campanella, che rimane solo contro tutti e senza Ina; rimane con la promessa di un fiore dentro alla bocca, una campanella, che getta ogni sera in mare per lei.

 Lo stile di Maria Cristina è innovativo e certamente tradizionale, allo stesso tempo, che genera un linguaggio teatrale e discorsivo, impreziosito da significative espressioni dialettali. 

Abbiamo capito subito che Maria Cristina aveva quel quid plus tipico delle #personedivino. Leggete l’intervista e capirete che non ci siamo sbagliati.    
Maria Cristina, parlaci di te e del tuo rapporto con il vino. È vero che “vino e Sicilia” è un binomio inscindibile?
Più che un binomio, parlerei di causa ed effetto. Ovvero, due cose non stanno mai vicine perché sono complementari. A volte, sono unite perché creano una terza cosa. In questo caso si chiama Bellezza. In Sicilia, il mondo del vino è Bellezza perché è un ambiente vivo di persone che hanno scelto di difendere una tradizione ma innovandola, aprendosi, guardando avanti. C’è un’immagine bellissima, che ricorderò sempre. È l’immagine giusta. L’immagine dei filari che in autunno vengono accarezzati da chi aspetta il ripetersi di qualcosa dentro alla terra, dentro alla vita e poi dentro alla bocca. Ecco, questo sentimento antico è la chiave di tutto in Sicilia. E per questo vale sempre la pena fermarsi e raccontare. Quindi per rispondere alla domanda, la relazione tra vino e Sicilia è sempre una storia.
Hai un vino del cuore? Cosa ti piace bere?
Non ho un vino del cuore ma devo ammettere di provare una forte passione per il Ben Ryé Donnafugata. Non mi piace bere, mi piace l’esperienza che le cose mi possono lasciare. E ogni sorso di vino è per me un modo di sapere quante sensazioni posso provare. Mio nonno diceva sempre che un bicchiere di vino non si beve, un bicchiere di vino si vive. Ritengo che questo sia sempre un grande insegnamento. Il bianco, però, vince sempre. Sarà perché sono rossa ed il contrario equilibra la mia vita.
Ci racconti un aneddoto carino, o romantico magari, che ti lega al vino?
Sì, quando iniziai a scrivere questa storia. Una bottiglia di rosso Planeta, la Segreta. Un tappo che ancora conservo perché ciò che impari, sempre, da una bottiglia è che aprendo qualcosa, quella cosa è tua e la devi vivere, non puoi subirla e basta. Quella cosa che si chiama vino, o semplicemente amuri, ti cambierà, ti emozionerà, ti darà nuovi occhi ma tutto questo non puoi deciderlo prima di stappare una bottiglia, prima di vivere. Questo è il motivo per cui il vino e la vita sono un’esperienza continua.
Il vino è da sempre considerato un catalizzatore di storie e di personaggi. Secondo te perché il vino ha questo potere?
Perché il vino, il mondo del vino è un luogo di persone, di mani, di filari tutti attaccati che vivono di radici dentro alla terra e di sguardo dentro alla vita. È la natura. È quel sentimento antico di cui ti parlavo, quando capisci che la bellezza può stare solo nelle natura delle cose. Pensaci: la natura umana che vive in totale simbiosi con la natura. E non è un potere. È una legge necessaria.
Hai un modello, nel tuo modo di fare letteratura? Credi che Camilleri, per esempio, possa averti influenzato?
Ho avuto tanti maestri in vita mia e durante il mio percorso che ha origine dal teatro. Mio Nonno Nino (che è un personaggio di questo romanzo) mi ha sempre insegnato a non avere paura delle foglie, della fragilità e delle bottiglie vuote. A lui, dedico questo romanzo perché lui mi ha lasciato questa terra, questa vendemmia di parole. Camilleri è un modello importantissimo e necessario ma io volevo tornare in Sicilia. Volevo raccontare la mia terra da un punto di vista diverso, quello dell’eccellenza. Così come esiste un commissario Montalbano, può esistere anche un avvocato Campanella che racconta il mondo del vino. È un pensiero molto presuntuoso ma anche coraggioso.
Quando hai capito che saresti diventata un’autrice? C’è stato un verso, una poesia, un libro o un’opera teatrale che ti hanno fatto capire che sarebbe stata questa la tua strada?
Prima ti ho raccontato di mio nonno. Lui si è sempre preso cura di me così come si fa con la vite. Ho studiato tanto e ho vissuto sempre poco la realtà. La realtà è una cosa che non mi riguarda se non riesco a vedere, a sentire, a restituire. È la stessa natura che possiede la vite, diceva sempre nonno. Non sai chi sei – e spero di non saperlo mai – fino a quando ciò che vedi e senti è più forte delle vista e dell’amore, in terra. Quando ero “picciridda” abbracciavo gli alberi così forte che tutti piangevano, nonno diceva che piangevano anche gli alberi. Io non so chi sono, non ho mai deciso cosa essere, voglio solo difendere questa fragilità.
Come è nata l’idea di Campanella? Ci racconti la genesi del tuo libro?
Campanella non nasce come idea ma nasce come parola, una dopo l’altra. Campanella nasce perché io amo. E amando, devo restituire. Nasce dal forte desiderio di voler tornare in Sicilia; dalla terra tra le mani e dall’acqua tra le dita dei piedi. 


Dai vigneti di Menfi che arrivano fino al mare, e anche tu ci arrivi fino al mare come Campanella, con grande fatica ma con qualcuno che ti tiene per mano ed è così pazzo da parlarci con la vigna, come Franco; e ti getti in acqua per morire, per far sì che un giorno il mare possa far tornare ciò che hai perduto; e le lacrime ti arrivano fino alle ginocchia proprio come Santuzza, ma le lacrime dentro al mare non si vedono e non si vedono manco dentro al vino. In verità, io non posso dire come nascono le cose. Come nasce l’amore? Arriva e bisogna amare, bisogna avere coraggio.
In Campanella si parla di amore e di mafia. Di processi che durano a lungo e di promesse. Con quale spirito hai trattato gli argomenti più spinosi? Qual è il denominatore comune che lega tutte queste cose?
Volevo parlare di cose serie, ridendo. Mi sembrava l’unico modo di condurre il lettore a riflettere. Un riso amaro che fa malissimo. In Campanella c’è la mafia e ci sono i mafiosi ma io li battezzo Pensabene, Minchialuzzo… è più un espediente narrativo. Ci sono i buoni e i cattivi, ma soprattutto ci sono coloro che hanno un limite, una mancanza, un handicap. Ed è proprio in questi personaggi che risiede la Bellezza ed è per questo motivo che io mi sono divertita tanto a descrivere questa ferocia che si chiama mafia o controllo del territorio come se fosse una grande commedia del limite umano. 


Quindi non fa paura, aiuta a reagire. Aiuta a non autorizzare un potere che in fondo, attraverso la chiave comica, è fuffa. La forza sta dentro di noi, nel momento in cui riconosciamo che non siamo niente senza gli altri. Come dire che il numero uno non esiste. Hai mai visto il vino abbinato a numeri? Sì, all’anno ma quel numero è l’insieme di tante cose, di tante persone. È già storia. Insisto e ne sono convinta: dal mondo del vino abbiamo tanto da imparare. Infatti, io la chiamo progettualità narrativa ovvero qualcosa che continua è sempre in movimento, cerca altre storie, altre cantine da raccontare e continua sul mio sito www.lestoriedicampanella.it
Hai deciso di ambientare la storia di Ina e Campanella a Menfi, un territorio che gli appassionati di vino conoscono bene. La Sicilia è ricca di zone vitivinicole: c’è un motivo particolare per cui hai scelto proprio Menfi?
Per prima cosa, quel territorio è il più grande vigneto d’Europa. E poi Menfi è la sede, ad esempio e per me era un grande esempio, di una cantina sociale: Cantine Settesoli. Ecco, soprattutto questa cosa era esempio. Non il singolo ma la collettività. Il fatto che ci fossero vitigni e terre ma l’obiettivo era uno, unico: il vino. 


Questo, per me, rappresentava un campo elevatissimo di valori: comunione, aggregazione, condivisione della bellezza, capacità di rinascita e di sfida. Valori che forse la società civile non coltiva più. Cantine Settesoli è l’esempio vivo che i soci sono persone e questi soci possono avere anche tredici anni. Questo passaggio non di beni ma di bene, di amore per la propria terra, andava raccontato.
Qual è il personaggio fra quelli che hai creato, se ce n’è stato uno, in cui ti riconosci maggiormente?
Tutti i personaggi sono figli del mio cuore, delle mie mani e di questa vendemmia di parole. Devo dire che come amerò Franco, non amerò nessuno. Perché la sfida non è stata solo quella di scrivere un romanzo che parlasse del mondo del vino. La sfida è stata vivere quel mondo. Lavorare con gli agronomi per capire, per traslare narrativamente dei concetti che erano prettamente tecnici. 


La sfida è stata incontrare persone che con il loro limite e il loro carattere sono diventate personaggi. E solo gli altri ti posso raccontare la vita, ed io ringrazierò sempre il cielo per aver incontrato Franco, per aver amato Campanella, e lo sguardo pieno di parole di Santuzza.
Nel tuo nome c’è il futuro. Chi sarai e cosa farai “da grande”?
Il mio cognome è già una storia. In un orfanotrofio, le suore inventano un cognome per questi “picciriddi”. E li battezzano Sarò come il verbo che nel dialetto siciliano non esiste. Noi siciliani non decliniamo, non parliamo mai al futuro. Allora, tutti mi chiamano Cristinedda e c’è un motivo. Io spero di non essere mai grande. Spero di avere sempre questi occhi e questo cuore da “picciridda”. Essere grandi, non vuol dire niente. Solo il cuore può essere grande.