Riccardo Cotarella lo conosciamo tutti: quando pensi allo stereotipo dell’enologo italico è il primo nome che ti viene in mente, al massimo – senza nominare altri illustri winemakers – il secondo.
Proviene da una famiglia di viticoltori: fu inviato dal padre alla scuola di enologia a Conegliano e da lì via verso il successo. Divenuto enologo nel 1968 costituì dieci anni dopo l’azienda vinicola Falesco; docente presso l’Università della Tuscia di Viterbo, dal 2013 è presidente di Assoenologi. Recentemente è stato nominato presidente del Comitato scientifico per il vino all’interno del padiglione Italia al prossimo Expo di Milano.
Con Riccardo Cotarella nel corso degli anni il profilo dell’enologo – così come era inteso diversi anni fa – è radicalmente cambiato. Egli infatti è fautore di una nuova figura: l’enologo che non si limita – per semplificare – a dare indicazioni tecniche in fase di vinificazione ma che si spinge a raccontare il vino, interpretarlo a beneficio del mercato, comunicarlo ed infine venderlo. Un enologo factotum, con competenze – udite udite – anche in vigna. Una rivoluzione. E come in tutte le rivoluzioni, a qualcuno non è piaciuta.
Al personaggio Cotarella non hanno risparmiato, infatti, critiche e malignità. 
A lungo si è dibattuto su presunti appiattamenti dei vini da lui prodotti, ammorbiditi da spregiudicati impieghi del legno; non meno spesso gli si contesta la sua inclinazione verso i vitigni internazionali, specialmente il merlot. Di recente l’attacco che più frequentemente gli viene rivolto è di essere molto, troppo vicino al potere, quando gli si rinfaccia di collaborare per le aziende di Massimo D’Alema, Bruno Vespa, Gianmarco Moratti

AIS Milano lunedì scorso ha rinnovato il banco di degustazione dedicato ai vini di Cotarella. La folla era delle grandi occasioni, e parlo di folla a ragion veduta. Davvero tanta gente. Abbiamo provato qualcuna delle sue creature con curiosità, con l’intento birichino di verificare se davvero fossero “tutti uguali”, compito tra l’altro facilitato dal fatto che in degustazione vi erano soltanto vini rossi. Vediamo come è andata. 

Di Majo Norante: l’azienda molisana offre una produzione varia. In degustazione due annate di Don Luigi Riserva, montepulciano e aglianico, rispettivamente al 90% e al 10%. Il 2011 è senz’altro goloso e succoso al naso e in bocca, ma ancora squilibrato. Da attendere. L’annata 2008 si è liberata della gran parte di asperità giovanili e lascia scoperta l’anima morbida. Buona la corrispondenza gusto olfattiva, ha tutto del vino opulento. Difficile da bere lontani dai pasti, non è il vino che preferisco in questo momento della vita.

Falesco: l’azienda di famiglia presenta il vino che più la rappresenta, il noto Montiano, merlot in purezza coltivato nel viterbese.

Nel 2012 troviamo tutte le caratteristiche del vino morbido, educato e non ancora molto espressivo. Darà il meglio di sé più avanti.
Il Montiano 2007 invece spiega le vele e solca il piacere espressivo e fiero. Il profilo olfattivo è ampio e dinamico, spaziando dai frutti rossi maturi a lievi ma percepibili tocchi di vaniglia. La bocca è sinuosa, agile e nobile. Componenti ben equilibrate, ritengo stia dando oggi il massimo della propria espressione. Il legno c’è, si sente ma qui non fa invasioni di campo, non sgomita, non urla: bel vino.

Galardi: le aziende che fanno pochi vini ci sono sempre piaciute. Quelle che ne fanno uno solo hanno un fascino del tutto particolare. E Terra di lavoro è uno dei primi grandi vini in cui mi sono imbattuto, diversi anni fa. Blend di aglianico e piedirosso, ha il quid plus del terreno vulcanico, indispensabile per conferire la vena minerale che lo caratterizza.
Terra di lavoro 2012 è fruttato, spiritato ma già ben equilibrato.
Terra di lavoro 2001 non ha perso intensità dei pigmenti e offre al naso uno spartito terroso, quasi erbaceo, cui segue il segno del tempo con le note di carruba e quelle eteree di smalto e lacca. Il è tannino integrato ed il sorso è ancora scattante, croccante, instancabile.

A seguire uno degli assaggi più buoni della serata: Castello di Volpaia Coltassala 2005. Avevo perso le speranze sulla possibilità che un Chianti potesse ancora sorprendermi. Beh, questo lo ha fatto. Il naso al primo impatto è di ciliegia matura e caffè; dopo qualche attimo si sprigionano sentori di tamarindo, cacao, vaniglia, sottobosco e gran bella nota balsamica. Al palato non delude, mantenendosi teso e raffinato, dalla ottima progressione verso un finale interminabile. Per la serie gran bel bere.

Dell’azienda Coppo avevamo già parlato quasi due anni fa, in occasione della degustazione della loro Riserva Brut (qui l’articolo). In questa occasione abbiamo provato Pomorosso 2011, una barbera
ben equilibrata che non soffre l’apporto delle barriques. Sull’uso del legno con la barbera ne faccio spesso – sbagliando, a volte – una questione di principio.
Il naso è tipico, fondato su aromi di more e visciole e solo leggermente caratterizzato dalle note boisé di tabacco e pepe. L’assaggio è un buon compromesso tra l’energia varietale della barbera e la mediazione del legno: una combinazione certo ben ponderata, che sottrae al fascino tipico della barbera solo il minimo necessario per donargli, in compenso, complessità gusto olfattiva di tutto rilievo.

Al termine degli assaggi l’interrogativo iniziale circa la presunta omogeneità di gusto dei vini in degustazione rimane irrisolto. La medesima mano è tangibile: tecnicamente i vini di Cotarella, quelli bevuti oggi almeno, sono pressoché perfetti. Vi sono differenze e picchi qualitativi – tuttavia – soprattutto dove è l’impronta territoriale a fare la differenza, come il caso di Terra di lavoro
Nei vini dove il terroir ha minore impatto – per scelta o necessità – le caratteristiche organolettiche ovviamente hanno maggiore conformità.
Questo non vuol dire che siano vini cattivi ma semplicemente destinati a un pubblico diverso e forse meno esigente, si possono apprezzare o meno esattamente come l’opera dell’enologo che li ha creati.