Il nostro invinato speciale _ Gianpaolo Arcobello Varlese – è tornato, proponendoci le proprie impressioni su un vino che in effetti tempo fa colpì molto anche me. Gianpaolo ha trovato le parole e lo spartito per descriverlo: 

Il mio primo contatto con La Sibilla risale al Vinitaly 2010, quando un esuberante Vincenzo Di Meo ci presentò i vini dell’azienda di famiglia. Ma più di quegli ottimi assaggi il ricordo che mi è rimasto fu il sorriso della signora Restituta, mamma di Vincenzo che, dal fondo dello stand, guardava fiera il figlio, in silenzio, con occhi che solo una madre può avere, tracimanti d’amore e di orgoglio per ciò che di più caro si ha al mondo.

Da allora ho cominciato a interessarmi sempre più a storia e produzione di La Sibilla, azienda da cinque generazioni a conduzione familiare sita in quel di Bacoli, in pieni campi flegrei: una lingua di terra di natura vulcanica a nord di Napoli in cui i vulcani attivi delle solfatare, i ruderi dell’epoca romana e la bellissima costa con vista su Capri e Ischia si fondono in un paesaggio di rara armonia.
I vigneti della famiglia Di Meo racchiudono tutto ciò, e proprio le uve sono l’emblema della filosofia aziendale, tutte rigorosamente autoctone, aglianico e falanghina in primis, ma anche uve “minori” quali olivella, marsigliese e aglianichella, alle quali vengono dedicate cure, tempo e sperimentazioni per la loro rivalorizzazione. L’azienda è anche una fattoria didattica e punto di riferimento per l’enoturismo flegreo.
Il progetto Vigne Storiche invece, curato dall’Osservatorio Appennino Meridionale, ha studiato i Cru di 457 aziende campane, selezionandone rigorosamente ventidue che rientravano nei parametri di vigne autoctone a piede franco di almeno sessanta anni, la cui storia sia fortemente legata alle tradizioni agricole e culturali del luogo. Musica per le nostre orecchie.
Il Piedirosso di La Sibilla rientra in pieno nel sopracitato profilo, essendo stata selezionata una vigna centenaria dal vigneto di proprietà e destinato alla selezione Vigne Storiche.
Il colore, rubino mediamente carico con lieve unghia granata, fa da apripista a un’eleganza esplosiva, con un naso di macchia mediterranea, amarene, terra bagnata e funghi, a una mineralità vulcanica, quasi lavica! Il tannino già smussato è in via di completa integrazione e in bocca la bevibilità di questo piedirosso “al cubo” rimane inalterata, sfoderando tutta la sua energia, la mineralità ancor più possente, sembra quasi una nebulosa che ruota su sé stessa in attesa di trovare la sua dimensione ed esplodere… con tutti i suoi meravigliosi profumi.
Nel bel mezzo di questa bevuta sismica cerco il fiore, cerco il frutto, ce ne sono e sono pure tanti, ma ormai non riesco più a percepirli, da quando ho aperto la bottiglia non riesco a togliermi dalla testa quello sguardo di una madre a suo figlio Vincenzo, quello sguardo pieno d’amore, di cui ne sono pieni questo vino e la terra in cui è cresciuto.
E l’amore è il profumo più nascosto che possiamo trovare in un calice.