Càpita. A volte càpita. Anzi – senza aver paura di essere smentiti – a noi è successo più di una volta di individuare un vino quando ancora non vive nel successo e tra i nomi noti dell’olimpo enoico, parlarne come un pargolo che avrà un radioso futuro e scoprire tempo dopo che… beh, avevamo ragione.
Era il mese di luglio 2013 e pubblicavamo un articolo sul Faro Le Casematte, parlandone un gran bene (articolo visualizzabile qui). Di quel Quattroenne 2009 come si chiamava allora scrivevamo “…uno di quei vini per i quali anche scervellandosi non si trova un motivo – anche uno soltanto – per non riacquistarlo“.
Era il mese di luglio 2013 e pubblicavamo un articolo sul Faro Le Casematte, parlandone un gran bene (articolo visualizzabile qui). Di quel Quattroenne 2009 come si chiamava allora scrivevamo “…uno di quei vini per i quali anche scervellandosi non si trova un motivo – anche uno soltanto – per non riacquistarlo“.
Io l’ho riacquistato, infatti, giusto per vedere come era evoluto. Sorpreso, ma fino a un certo punto: la stoffa del campione si era già percepita.
Rubino tendente al granato, sinuoso nel calice. Lo spartito aromatico è terroso e fortemente speziato, tabacco, sigaro, anice stellato, stecca di cannella, more di rovo; armonia speziata e tesa, cangiante e fiera. Dopo qualche rotazione vira in amarena Fabbri, in china e tamarindo. In bocca ha una leggera distorsione alcolica, ma ha piglio da gran protagonista, tannino centrato, elegante e ben legato a un sorso sapido e scattante. Di ottima fattura la PAI, che si dilunga parecchi secondi dopo aver deglutito.
Ho bevuto il Faro mangiando la tradizionale focaccia messinese, un abbinamento che a qualcuno potrebbe non piacere ma… a me sì! Basta con la solita birra, dateci retta. Dopotutto qualche volta ci azzecchiamo anche con gli abbinamenti.
Càpita anche questo.