Abbiamo conosciuto Marco Balzano, autore di L’ultimo arrivato, vincitore del Premio Campiello 2015, a una serata di degustazione. Abbiamo scoperto la sua passione per il vino e così gli abbiamo proposto un’intervista a cavallo fra letteratura e vino: un ottimo abbinamento!


Insegnante, scrittore, sommelier… in quale di queste vesti si sente a più agio? 
Sono tre cose che mi vengono naturali, le sento come un’appartenenza. Certo, non sono un sommelier professionista, ma ho un amore e una curiosità enorme per il vino e per tutto ciò a cui si collega: viaggio, terra, storia, letteratura, incontri…

Che cosa l’ha spinta a prendere il diploma di sommelier? 
Vengo da una famiglia in cui è palpabile l’amore per il vino. Mio padre mi ha insegnato a conoscerlo e a parlarne. Poi ho incontrato un amico che mi ha proposto di farlo e mi ci sono buttato. È stata un’esperienza positiva, anche se mi aspettavo di bere qualche bicchiere pregiato in più!

Processo di produzione di un gran vino e di un bel libro: come tanti vignaioli ci hanno suggerito il vino nasce principalmente dal lavoro in vigna, poi fermenta e si affina in cantina, a volte si fanno travasi, scolmature… per poi arrivare al prodotto finale. Possiamo dire lo stesso per lo scrittore? Il lavoro dello parte da una buona idea, una buona storia, che poi si perfeziona con il tempo, al quale poi necessitano delle correzioni di bozze (che vedo come le pratiche di cantina), per poi arrivare al prodotto finale. In cosa – secondo il suo parere – sono simili e in cosa differiscono questi due lavori, apparentemente lontani ? Uno considerato intellettuale e un altro tipicamente “manuale”.
In realtà sono entrambi intellettuali e manuali insieme. Le analogie sono molte: il vino e la parola prevedono cura e pazienza. Le operazioni da fare non sono solo di aggiunta, ma anche di eliminazione del troppo. Ci vuole predisposizione, talento e abnegazione. E infine il vino e la scrittura sono due elogi alla lentezza: bisogna fermarsi per scrivere e degustare; darsi tempo per lasciar maturare e dare corpo e profumo. La parola è l’uva, insomma, hanno molte somiglianze. 
Quanto ha influito l’insegnamento nella sua scrittura? Stare a contatti con giovani e giovanissimi le ha fornito parole e strumenti nuovi e originali nel lavoro creativo?
Sinceramente no. Però va detto che sono due mestieri, l’insegnante e lo scrittore, che hanno in comune un grande amore per la parola e un forte desiderio di condividerla

Lei ha cominciato scrivendo storie più legate alla professione di insegnante (il racconto apparso nel volume Milano e Pronti a tutte le partenze) per poi passare con L’ultimo arrivato a una storia diversa di emigrazione infantile: è la maturità dello scrittore o aveva “esaurito” il tema?


Le mie storie nascono dall’esigenza di fare i conti con una ferita e perseguono il tentativo di parlare dei dimenticati. Le storie si incontrano e qualche anno fa ho incontrato quella degli emigranti bambini. Non è una questione di esaurire il tema: è, appunto, una questione di incontro e, perché no, di innamoramento
Ci ha parlato prima di lentezza, invece il libro ha un ritmo molto veloce (fa pensare alle Lezioni Americane di Italo Calvino e al suo concetto di rapidità), questo corrisponde anche alla tecnica di scrittura? Scrive di getto o ripensa e riscrive molte volte?
La ringrazio del paragone lusinghiero. Riscrivo tantissime volte. La cosa difficile non è scrivere, è riscrivere e cancellare. 
Si ricorda che, nella prima pagina del suo ultimo libro, scrive ricordando il maestro: “Camminava con il suo passo pesante, schiacciando i piedi come se pigiasse l’uva.” All’interno del volume, i riferimenti al vino sono sporadici, voluti o casuali?
Per i poveri il vino è un mezzo per alleggerire il peso della vita: “Per dimenticarsi di essere poveri cristi” – dice Ninetto quando vede i grandi a un baracchino col bicchiere in mano già al mattino. La degustazione è un’operazione colta e complessa, in questa storia invece c’è gente intenta a sopravvivere e a cavarsela. 
Ninetto pelleossa, il protagonista, ha una vita molto ricca e movimentata, a tratti impetuosa; se fosse un vino quale sarebbe?
Un bianco dell’Etna per le sue origini (amo i vini dell’Etna) e uno Champagne per la sua effervescenza.
Vigneti sull’Etna

Il protagonista è siciliano e nei suoi ricordi di bambino parla spesso della vita in Sicilia, utilizzando parole ed espressioni dialettali. Che cosa l’ha spinta a parlare proprio di Sicilia? Ha un legame particolare con questa terra e con questa lingua? E che rapporto ha con il vino siciliano?


Adoro i vini etnei, così complessi al naso e in bocca, con finali lunghi. Ma amo molto anche il Cerasuolo di Vittoria, è un vino che meriterebbe più considerazione. Tornando al libro: la Sicilia è stata una terra di emigranti, molti anche giovanissimi. Il siciliano poi, di cui ci sono però solo sei parole immediatamente comprensibili, ha una cadenza musicale e spiritosa. La sento mia anche se io sono un milanese con origini pugliesi. Non un siciliano. 
Nel suo futuro, ha mai pensato di scrivere un romanzo dove il vino sia comunque un elemento chiave se non addirittura attore principale? Mario Soldati è stato un esempio di scrittore ma anche di appassionato di vini…
Assolutamente sì. Un romanzo che ho nel cassetto e che in futuro pubblicherò è un saggio su una tematica del vino molto trascurata. Appena finisco questa lunga tournée di incontri lo vorrei scrivere. 
Lei ha scritto anche un saggio su Leopardi, di cui è molto appassionato. Vuol raccontarci qualcosa sul rapporto tra Leopardi e il vino? Non è forse un caso che i suoi diretti discendenti siano produttori. E se dovesse abbinare un vino a Leopardi quale sarebbe e perché?
Nell’Operetta morale su Torquato Tasso, il finale è dedicato al vino, “liquore generoso” che consente di dimenticare il peso dell’esistenza. Leopardi lo elogia sempre. Credendo fortemente nella valorizzazione del territorio non andrò lontano da casa sua: il Verdicchio di Matelica è un vino notevolissimo. 
C’è un filo rosso, a mio parere, che lega il saggio su Leopardi e il suo ultimo libro: Rousseau. Nel saggio è certamente sullo sfondo a proposito di “buon selvaggio”, nel volume il protagonista cita spesso il filosofo. Se poi pensiamo all’importanza di Rousseau in campo pedagogico (penso ovviamente all’Emile) e al suo lavoro da insegnante, non posso che domandarle che cosa rappresenta Rousseau per Marco Balzano.

Jean Jacques Rousseau

Un genio assoluto. Un dono fatto all’umanità. Leggerlo vuol dire diventare migliori
Il vino è compagno di scrittura? oppure meglio il solito caffè o tè?
Il vino è compagno di lettura. Per la scrittura meglio il caffè. 
Ha un vino preferito? C’è un aneddoto, o una storia personale, legata al vino che vorrebbe condividere con noi?
I miei vini preferiti sono due vini siciliani. Non faccio nomi di produttori per non esser parziale. L’aneddoto? Avevo un nonno contadino che mi faceva vendemmiare: ho ricordi di grandi danze sull’uva e di feste fino a tarda notte piacevolmente inzaccherati e felici