Il nostro amico Gianpaolo non è uno che si fa pregare, quando si stratta di provare nuovi vini, specialmente bianchi e neanche questa piovosa estate lo può fermare.
L’ultima sua degustazione riguarda il Vigne della Brà 2012 di Cantina Filippi, di cui avevamo già parlato nell’aprile dell’anno scorso in occasione di VinNatur; è ottenuto da garganega in purezza, una varietà che è ancora spesso legata a concetti di produzione quantitativa. Nulla di più errato: il patrimonio olfattivo della garganega è ricco di sentori mandorlati e pera e nonostante una acidità non spiccatissima può dar luogo a vini di insospettabile longevità.
Citata per la prima volta da Pietro de Crescenzi nel XIII secolo, la garganega ha certamente origini venete: recenti studi hanno sorprendentemente dimostrato la sua parentela con il susumaniello, varietà a bacca scura presente in Salento, nonché una affinità genetica con l’albana, il catarratto bianco e la malvasia bianca di Candia. Scrive Gianpaolo:
“Brà. Fino a ieri mi ricordava solo un Comune dal nome corto e la famosa piazza dell’Arena di Verona, anche se in entrambi i casi l’accento non c’è. Da oggi assocerò Brà a questo fantascientifico vino di Filippi, il Vigne della Brà, appunto. Fantascientifico perché sovverte i tanti cliché che si porta ingiustamente dietro la garganega. L’assaggio di questo vino è quanto di più originale si possa trovare in un calice di bianco, almeno per il sottoscritto. Agli antipodi del parkeriano gusto ciccione e piacione, potrà non far impazzire tutti, ma è innegabile che sia un vino che colpisce il bevitore per la sua spiccata personalità.
Consigliatomi vivamente da Francesco (un “rossista” che consiglia un bianco!) non esito ad aprirlo a una cena di sushi, di quelli un po’ speziati ed “impupazzati”, tipo tiger roll con tempura di gambero dentro, mango e avocado fuori e salsine varie: apparentemente un Davide contro Golia in termini di impatto gustativo: il Vigne della Brà tuttavia non teme confronti e a tavola si dimostra protagonista indiscusso.
Ottenuto da piante di sessanta anni a quattrocento metri sul livello del mare, matura in acciaio per circa venti mesi senza subire chiarifiche né filtrazioni. La sua principale caratteristica è una spaventosa quanto camaleontica mineralità: tutto l’assaggio ruota attorno ad essa e il naso è un continuo susseguirsi di sentori di gesso, cenere, torba e pietra focaia, piacevolmente accompagnati dalla presenza di pompelmo prima e lime poi. Bellissima la nota sulfurea, meravigliosamente integrata nell’assaggio con carezzevoli note di tostatura di caffè ed erbe aromatiche. Lunghissimo il finale di frutta secca, noce su tutti, che invita a un altro calice, e un altro ancora… L’acidità lo colloca di diritto nei vini che possono prendere polvere in cantina: tra qualche anno potrebbe essere ancora più emozionante.”