di Stefano Quatrini, Sommelier e Degustatore Ufficiale AIS Milano

I vini, prima o poi, vanno bevuti. In fondo sono fatti per questo, per essere bevuti. Quando si stappa una bottiglia, soprattutto se l’ultima, rimane sempre il dubbio di non aver atteso abbastanza e, allo stesso tempo, si teme di aver aspettato troppo. Stappare una bottiglia non più giovane è sempre un’operazione delicata, carica di aspettative e timori. Occorre aprirla con il giusto anticipo, delicatamente, senza rovinare il tappo, occorre ossigenare il vino quanto basta. E’ un’operazione che deve essere compiuta con consapevolezza: è un omicidio premeditato. I vini devono essere bevuti al culmine del loro élevage (o evoluzione, non invecchiamento, please) che si ha in quell’attimo ideale in cui lo sviluppo olfattivo è al massimo, prima del fatale, inevitabile, decadimento.
Dei vini di cui riporto oltre alcune brevi note di degustazione non so se ho colto quel magico istante, certo è che mi sono avvicinato molto. Incominciamo dal più giovane a ritroso o, alla francese, a rebours.
Incominciamo, dunque, dal Trento DOC  Perlè Bianco Riserva 2006 di Ferrari, chardonnay in purezza, con 104 mesi di affinamento sui lieviti. Un vino complesso ed elegante, ben rappresentativo del territorio e della maestria dei Lunelli nel fare vini spumeggianti. Una curiosità che mi sovviene mentre osservo le fini bollicine e la spuma è che il nome della linea Perlè deriva da perlend (in tedesco spumeggiante) anche se l’immediato rimando all’eleganza delle perle è inevitabile e suggestivo. Una riserva voluta per celebrare l’annata eccezionale – inverno freddo ed estate calda e asciutta con vendemmia ideale – che colpisce per grazia e complessità di profumi: anzitutto cedro candito, pompelmo, agrumi, bergamotto, quindi note minerali, fiori di campo, ritorni di frutta esotica e poi mela cotogna, erbe aromatiche e pepe bianco. In bocca colpiscono sapidità e freschezza in perfetto equilibrio con le morbidezze, il sorso è pieno ed invoglia ad un successivo assaggio. Il finale è lunghissimo, ideale per meditazione così come per abbinamento al cibo. Un vino che emoziona.

Affascinante ed elegante, propriamente sabaudo, il Barolo Bussia di Fenocchio racconta il 1997: un’annata molto buona con una primavera secca, temperature sopra le medie, piogge in giugno ed un settembre spettacolare, caldo, con scarse precipitazioni e giustamente ventilato. Quindi uve sane ed un vino adatto all’invecchiamento, ideale per i barolo in genere, per Fenocchio – classicità, austerità e tipicità – in particolare. Nel vino degustato sono emerse note balsamiche, funghi essiccati, frutta rossa giustamente matura, ricordi di sottobosco. In bocca eleganza e persistenza, con quanto sentito al naso in aggiunta a caffè, cioccolato, tabacco e ancora fungi secchi. Armonia allo stato puro. Sabaudo.

Seguendo il tempo e non il corretto ordine di servizio – qui non necessario visto che i vini sono stati degustati in luoghi e tempi diversi – passiamo al riesling Eiswein Pauline di Weingut Manz, annata 2005. Un riesling che viene dal freddo, dalle uve ghiacciate del Rheinhessen – zona da cui si ottengono vini morbidi e rotondi – che offre un ampio caleidoscopio di profumi il cui “centro gravitazionale” è dato da albicocca essiccata e miele di castagno. Un sorso che non stanca nonostante l’elevato grado zuccherino perché è ben presente l’acidità. Avvolgente.



Il 2000 è Toscana IGT, il Cepparello della Cantina Isole e Olena. Annata molto buona con temperatura mite che ha offerto un sangiovese in purezza non più limpido, ma ancora di un rosso granato vivace. Al naso è intenso e la nota ematica, carnosa, è uno schiaffo. Poi seguono spezie, pepe soprattutto, frutta rossa matura, prugne, ciliegie sotto spirito, ribes, fiori secchi, tabacco, note di cioccolato. In bocca l’ingresso è pieno, avvolgente con tannini ben presenti anche se levigati. Un finale lungo e ricco di ritorni e sorprese. Godibile.

Poi lo Chablis Vaudesir Grand Cru della Maison Antoin Rodet, annata 1999; uno chardonnay di 18 anni, giallo dorato, quasi oleoso, dal naso complesso. Si rincorrono burro, zafferano, nocciole, frutta candita, fiori gialli, acacia e gelsomino, il tutto su uno sfondo gessoso. Seguono fumé e tostato. Anche se si è persa la freschezza spiazzante tipica degli Chablis più giovani, rimane quanto basta per sostenere il sorso che comunque risulta pieno e avvolgente, di grande impatto. Chablis mon amour.

In questa carrellata a ritroso non poteva mancare un pinot nero, un Oltrepò Pavese DOC, Luogo dei monti, Vercesi del Castellazzo, annata 1998. Riconoscibile nei suoi tipici profumi, ha mantenuto la freschezza di beva ed il colore raffinato ed invitante. Un Oltrepò Pavese sorprendente, assaggiato ad un banco di degustazione fra decine di vini giovani, presentato dal produttore quasi per sfida, per dimostrare quanto il suo vino, frutto delle sue fatiche, possa competere con vini appena imbottigliati, ancora “bambini”. Un produttore che avrei voluto conoscere, ma che era appena andato via affidando ad altri le sue preziose bottiglie. Meglio, lo andrò a trovare in azienda. Sorpresa.

Grande assaggio anche l’Erdener Treppcher Riesling Auslese di Stephan Ehlen. Un 1995 in ottima forma. Presenti tutte le note evolutive dei riesling della Mosella: idrocarburi, gomma e copertoni alla prima olfazione, poi zafferano, albicocca disidratata, pesca sciroppata, fiori dolci, finocchio, etc. In bocca mantiene la promessa del naso ed il sorso è sorretto da freschezza e sapidità. Il tocco dolce contribuisce al lungo finale che rende difficile assaggi di altri vini. Dopo di me il diluvio.
E, invece, nella disordinata degustazione di queste righe, abbiamo un ultimo vino: un San Giorgio di Lungarotti, annata 1993. I vini di questa cantina sono noti per la capacità di evoluzione e questo blend di cabernet-sauvignon, sangiovese e canaiolo ben lo testimonia. Certo, il vertice gustativo è stato raggiunto e si avvertono gli inizi dell’omologazione che la vecchiaia di un vino comporta: eppure i profumi sono ancora quelli tipici di questo vino, i frutti rossi, le note di cuoio e pellame, le spezie, i fiori disseccati, le note vegetali. L’ingresso in bocca è sontuoso e avvolgente, i tannini armonizzati e la tentazione di ricercare un piatto in abbinamento irrefrenabile. Un vino strappato al decadimento che ha lasciato il gusto della ricerca, in altre bottiglie, del suo apice. In extremis.