Di Emma Assi

Metti tre giovani imprenditori, prima di tutto amici, uniti dalla passione per vino e cibo, metti sempre più numerose piccole realtà che si dedicano con cura e dedizione alla produzione di vini naturali, metti una folla di enoappassionati ed operatori critici, attenti e curiosi… unisci tutto con la voglia di creare un nuovo modo di bere consapevole e responsabile ed ecco che nasce IoBevoCosì.

Il titolo è ben lungi dall’essere un’imposizione, ma rappresenta una scelta. 
La scelta degli organizzatori di creare un evento in cui a parlare siano imprescindibilmente il territorio, il vino e i suoi produttori. La scelta di questi veri e propri “artigiani del vino” di abbracciare un metodo produttivo completamente biologico e naturale, vigneron che nell’epoca della globalizzazione e dell’omologazione hanno voluto essere la voce fuori dal coro e prendere una posizione tanto encomiabile e coraggiosa, quanto ardua e difficile.
Ed infine la scelta dei visitatori della manifestazione, ossia di quelle persone che hanno deciso di bere in maniera etica e naturale nel pieno rispetto del territorio, dell’ambiente e del lavoro dei vignaioli. 
Per la sua seconda edizione la manifestazione si svolge in una location da togliere il fiato: la seicentesca Villa Sommi Picenardi, immersa in uno splendido parco e contornata da un giardino all’italiana e uno all’inglese.
Gli stand dei produttori sono suddivisi tra le sale interne finemente affrescate e la tinaia che, con travi e mattoni vista, ricorda una cantina… quale posto migliore!
Il cielo terso con il sole splendente, la piacevole brezza fresca che pervade i locali interni e questa splendida cornice,  non possono che invogliare la degustazione, quindi… apriamo le danze!!!

Per iniziare secondo protocollo, mi dirigo verso le bollicine di Ca del Vent, realtà sempre presente in questo tipo di manifestazioni. Assaggiamo subito il  Franciacorta Brut Sospiri 2008, 100% chardonnay. E’ d’obbligo un accenno al metodo produttivo che vede questa cuvée ottenuta dall’assemblaggio di 6 vinificazioni diverse: una parte in botti scolme, ognuna con diverso grado di scolmatura, mentre l’altra in botti tenute in condizioni diverse. In questo modo nasce un vino base unico in ogni singola barrique. Dopo un affinamento sur lie di 64 mesi, al momento della sboccatura vengono aggiunti solo vini Franciacorta per ottenere quello che i produttori definiscono uno spumante “pas Operè” (non lavorato).


L’assaggio non delude le aspettative. 

Al naso la potenza aromatica delle uve si esprime su note di frutta esotica, mentre i lieviti lasciano traccia del loro operato in una piacevolissima crosta di pane, che evolve in sentori di nocciola e burro grazie all’ossidazione. In bocca il Sospiri è un’ottima  espressione di equilibrio, con note morbide intrecciate a freschezza e sapidità per un finale leggermente amaricante.
Grazie ad una fortunata coincidenza, ho la fortuna di assaggiare un millesimo 1999, Ubiqua, vino bianco fermo 100% chardonnay, anch’esso molto equilibrato e di giovanile maturità. All’esame olfattivo l’evoluzione assume i profumi di frutta gialla matura, caramello e vaniglia. Il sorso è morbido, ma con una freschezza ancora vivace nonostante l’età. Un vino non eccessivamente strutturato, ma che regala un finale amaricante e una nocciola lunghissima e persistente.
Per continuare decido di andare nei luoghi in cui sono nata e cresciuta, in Brianza, terra di certo non famosa per la sua produzione vitivinicola. Qui nasce l’agriturismo La Costa, realtà ancora giovane nel mondo enologico. Il Brigante bianco 2013 vuole essere un vino gioviale, per “allegre brigate”, ma evoca anche il nome d’origine di Brianza, Brig, che significa colle, altura. 
Ottenuto da uve chardonnay, manzoni bianco, traminer e verdese (varietà antica del Lario), è un blend che mi stupisce per la grande capacità di esprimere il territorio. I profumi varietali tipici degli aromatici sono infatti riconoscibili, ma discreti, attenuati da un naso che vira in maniera decisa su note minerali, figlie del suolo calcareo su cui crescono le vigne. Il sorso è fresco e deciso, corollato da una delicata morbidezza e da una discreta struttura. Un vino beverino, perfetto per cene tra amici, un vino che rispecchia il suo nome. A mio modesto parere bisogna ancora lavorare sugli altri vini, semplici e beverini sì, ma ancora privi di struttura e personalità ben definite. 
Con Antonio Giglioli, proprietario ed enologo dell’azienda agribiodinamica Il Casale, ritroviamo la Toscana nel bicchiere. Gocce di Luna millesimato 2014 extradry, è lo spumante che non ti aspetti. Trebbiano toscano in purezza, viene prodotto inizialmente con metodo Charmat, per poi continuare con quello Classico. 
Ovvero, al raggiungimento dei 18 g/l di residuo zuccherino la fermentazione in autoclave del vino base viene fermata con il freddo e fatta ripartire successivamente all’imbottigliamento ove si esaurirà naturalmente. Il naso, semplice e delicato, richiama la rifermentazione in bottiglia, mentre al palato la giovinezza di questo vino si traduce in una esuberante acidità, piacevolmente ammorbidita da un leggero residuo zuccherino. Acidità  su cui il vino si regge e senza la quale mancherebbe di struttura e persistenza. Un vino semplice, ma ben fatto ed originale, non sempre capita di assaggiare un trebbiano spumantizzato.  
Il trebbiano 2013 fermo stupisce per i suoi profumi di fiori freschi, camomilla, erbe officinali e persino menta, che a tutto fanno pensare meno che ad un vino ottenuto da una varietà non aromatica. Il sorso è fresco e sapido, accompagnato sul finale da una chiara nota tannica che riconduce alla macerazione di 30 giorni sulle bucce. Un bianco di carattere e struttura, che ben si può accompagnare anche a formaggi erborinati. 
Il Chianti di Antonio è il suo cavallo di battaglia, ma meriterebbe un articolo a parte, mentre qui ho voluto dare spazio al trebbiano toscano, uva autoctona, che non sempre viene valorizzata e apprezzata. 
Per concludere andiamo in Campania per il Fiano Particella 928, Cru di Cantine del Barone.
In degustazione c’è l’annata 2012, quella che tanto ha fatto parlare di sé perché non ha ottenuto la denominazione. 
Già dalla prima analisi olfattiva iniziano a nascere i primi dubbi sul suo declassamento. Naso potente che spazia tra sentori vegetali di peperone, pietra focaia, minerali e frutta gialla, tutti avvolti da una nota affumicata. Profumi mutevoli e cangianti, diversi da quelli classici del fiano, ma comunque specchio dei numerosi precursori aromatici di cui sono ricchi gli acini di quest’uva. L’impressione che si ha in bocca è di un vino scalpitante, che impatta la mucosa con freschezza citrina e mineralità tagliente. 
Ma non è finita qui. 
Quando le papille ritrovano la bussola, ecco sullo sfondo farsi spazio note erbacee e affumicate. La persistenza è ottima. Che dire… un vino che di sicuro non mi sembra avere difetti e immerito del trattamento riservatogli. Un episodio spiacevole, ma il cui lato positivo è avere dato risalto e fatto pubblicità a un fiano diverso dal comune, specchio del territorio e dell’artigiano del vino di cui è figlio. 
Concludendo, sottolineo che la bellezza di queste manifestazioni è proprio la possibilità di relazionarsi direttamente con il produttore, di sentire da lui il racconto e le motivazioni che lo hanno spinto a intraprendere questa scelta produttiva. 
Un percorso che, secondo me, si rivelerà vincente non solo perché questi vini raggiungono risultati eccellenti, ma anche perché incarnano unicità e tipicità del vino e del territorio. 
Una filosofia dalla quale nascono vini sempre e sorprendentemente diversi. 
Una filosofia che fonda le sue radici sulla riscoperta di vitigni autoctoni e metodi antichi, se non addirittura ancestrali, di produzione. 
Chapeau ai nostri antenati che la sapevano lunga in materia di bevute!!!