C’è un luogo dove il mare accarezza le coste siciliane e congiungendosi con il fiume Belìce forma una foce di bellezza inaudita. Risalendo verso nord la terra risale il cielo, formando dolci colline: il sole qui sa scaldare, a volte tanto, troppo: ci pensa il vento quando da scirocco si rinnova in tramontana a stemperarne la passione. Siamo a Menfi, lungo la costa sud ovest della Sicilia. 
Un punto, poco più, su una cartina. Un crocevia di venti e correnti, ma soprattutto culture, susseguitesi nei secoli.  

Nei vini di Marilena Barbera c’è il mare, c’è il cielo e quella brezza tutta siciliana che a parole no, non si può spiegare. Chi ha provato La Bambina, per esempio, sa che cosa voglio dire. Chi ha passeggiato a piedi nudi su quella sabbia, pure.
Abbiamo fatto a Marilena qualche domanda sul recente Vinitaly, sul futuro del vino in Sicilia, sui vini naturali in genere. Abbiamo avuto delle belle risposte, mai banali, dirette, capaci di generare riflessioni o dibattito. Le risposte che danno le persone come Marilena, #personedivino

Che cos’è per te il Vinitaly e come hai vissuto quest’ultima edizione? Hai notato differenze con le edizioni passate?

Da diversi anni mi interrogo sul Vinitaly, ne ho parlato anche
in un mio articolo sul blog aziendale (http://www.cantinebarbera.it/it/diario-di-viaggio/297-vinitaly-14-anno-sabbatico.html)
nel quale riflettevo sull’utilità di una fiera che presenta tantissime
problematiche sia per le aziende che per i visitatori. Ho fatto una pausa di un
anno, durante la quale non ho affatto notato un peggioramento delle mie relazioni
commerciali, anzi: mi sono focalizzata sulle piccole fiere dei vignaioli, dove
l’ambiente più disteso e il minor affollamento creano condizioni migliori per
la degustazione e, di conseguenza, per le vendite.
Quest’anno ho approfittato di uno spazio gratuito
all’interno di uno stand collettivo, che mi ha consentito la partecipazione
senza alcun costo di esposizione: a queste condizioni, ovviamente sono andata e
ho cercato di evitare il caos della domenica, fermandomi solo il lunedì e il
martedì.
Credo che anche altre aziende abbiano fatto le stesse
riflessioni, così come i compratori: quest’anno ho notato, infatti, molte meno
presenze degli anni passati (quindi nessuna fila all’ingresso e minore
congestione nei padiglioni) ma gli stessi identici problemi.

Pensi che la formula del Vinitaly sia ancora attuale o c’è bisogno di una rinfrescata?

Vinitaly è sempre lo stesso da decenni, e sempre con gli
stessi problemi: viabilità cittadina insufficiente, bagni sporchi, linee
telefoniche intasate, ubriachi che ciondolano nei corridoi, episodi di
vandalismo… cose che tutti ripetiamo da anni, ma per le quali non si è mai
trovata una soluzione.
Ma questi ovviamente sono solo gli aspetti pratici: credo
che il principale problema, che riguarda ogni fiera, sia invece l’aumento
esponenziale delle opportunità di contatto e di comunicazione fra aziende
(soprattutto le piccole) e operatori. Dieci anni fa le fiere erano l’unico modo
per incontrare i produttori e degustare i loro vini: oggi le opportunità di
incontro si sono moltiplicate, i contatti si tengono sui social media, le fiere
non sono più il luogo privilegiato ove si formano le decisioni di acquisto.

Rinnovarsi diventa, quindi, fondamentale: più servizi e una
maggiore segmentazione degli operatori presenti, oltre ad una maggiore
attenzione della fiera nei confronti delle piccole aziende – magari con la
realizzazione di una guida organizzata per tipologia di produttori e non solo
per regioni o denominazioni che consenta ai buyers di orientarsi meglio
all’interno dei padiglioni – potrebbero essere importanti passi avanti.

Fra quelli che produci, qual è il vino che ti somiglia di più? Potremmo ipotizzare La Bambina, è così?



La Bambina è uno dei miei vini del cuore, è gioioso e spensierato, si abbina facilmente con l’estate e con gli amici, io lo definisco un vino da ombrellone per la sua capacità di farti star bene e di accompagnare i momenti di relax. Ma ci sono molti altri vini che mi somigliano: alcuni di essi, come Ammàno o il nuovo rosso di Alicante che vedrà la luce fra qualche mese, sono frutto di una ricerca molto personale, nella quale ho messo me stessa, la mia sensibilità e il mio gusto soggettivo al centro della sperimentazione, cercando una sintesi tra il lavoro della natura e quello dell’uomo (della donna, in questo caso). In questi due vini ho lasciato liberi i miei sensi, non ho fatto analisi sui mosti, non sono intervenuta sulle fermentazioni né sugli affinamenti. Ho cercato una sintonia personale con le uve, ho cercato di capire e di seguire solo le indicazioni che mi venivano dal gusto, dall’olfatto, dal tatto e di adattarmi a quello che il vino voleva da me, non il contrario. Ne sono nati due vini per me straordinari, non parlo della loro qualità – quella la giudicherà chi avrà voglia di berli – ma della loro personalità: due vini che rappresentano le luci e le ombre della Sicilia, una terra in mezzo al mare che racchiude in sé innumerevoli contraddizioni, in grado di sopraffarti con la sua straordinaria bellezza e allo stesso tempo di farti perdere le staffe con i suoi secolari difetti.

Che vini bevi quando non bevi i tuoi?

Mi piacciono i vini con una storia, i vini che parlano al
mio palato almeno quanto parlano alla mia immaginazione. Per la maggior parte
sono vini di piccole aziende, e non è un caso che io preferisca quelli da cui
traspare la passione vera del vignaiolo. Perché fare il vino è, per prima cosa,
un atto d’amore
, che solo chi lavora in prima persona la sua terra e le sue
vigne riesce a trasmetterti.

Ci si può innamorare di un vino? Se a te è capitato, con quale vino è successo?

Sì, mi è capitato diverse volte. L’ultimo mio innamoramento
in ordine di tempo è per il grignolino di Cantine Valpane, ma prima di allora
mi sono innamorata di Batàr prodotto da Querciabella, di Ageno fatto da Elena
Pantaleoni, del Veliko bianco di Movia e del Vin Gris di Sinskey, che è stato
l’ispirazione da cui è nata la mia Bambina. 
Recentemente sei intervenuta nel dibattito sulla fermentazione con lieviti selezionati o indigeni, spiegando la tua tecnica e la tua posizione. Inevitabilmente si pensa al concetto di “vino naturale”. Che cos’è, quindi, un “vino naturale” per te?
È un vino fatto in sintonia con la natura, nel quale il
legame fra l’uomo e la vigna è forte e riconoscibile e in cui l’impatto delle
sovrastrutture di produzione – che sono essenzialmente le tecniche di
vinificazione scelte e gli eventuali additivi enologici usati – è ridotto al
minimo. In un vino naturale la tecnica di vinificazione non dovrebbe
condizionare l’espressività delle uve, ma dovrebbe essere talmente impalpabile
da scomparire, e nel bicchiere dovrebbe essere percettibile solo il dialogo tra
la terra e l’uomo.
Per questo credo che non sia importante solo se si usino
lieviti selezionati o indigeni, oppure se la solforosa sia minore o maggiore di
un dato dosaggio, questi sono dettagli tecnici su cui ci si accapiglia spesso
ma raccontano poco o nulla del terroir da cui nasce il vino che si sta bevendo.
E’ ovvio che utilizzare trenta additivi in vinificazione significa
mascherare, condizionare la materia prima e che molte tecnologie industriali (e
soprattutto la standardizzazione dei processi e l’accelerazione dei tempi di
produzione) appiattiscono e omologano il prodotto finale, ma è altrettanto
evidente che alcune tecniche di vinificazione considerate tout-court “naturali”
sono talmente pregnanti ed invasive che, alla fine, il vino ottenuto non è che
la caricatura irriconoscibile della terra da cui proviene.
Credi che il consumatore medio presti attenzione alla questione “vino naturale” o è solo un aspetto tenuto in considerazione dai più informati?
Secondo me il consumatore è molto interessato alla
questione: il problema è che il modo in cui spesso se ne parla è abbastanza
scoraggiante. Sempre più, nel dibattito in corso, si fronteggiano due
schieramenti che non parlano fra di loro e di certo non spiegano nulla a
nessuno, ma si accapigliano su questioni di principio. Ecco, questo di sicuro
non aiuta il vino, né chi lo produce né chi lo beve. 
Menfi è una zona dove si è sperimentato molto, negli anni passati: qual è il vitigno alloctono che a tuo parere dà i risultati migliori? Pensi che si possa ancora continuare a sperimentare, impiantando magari vitigni non ancora presenti? Quale vitigno vorresti provare in futuro?
Qual è il migliore in assoluto è difficile dirlo: Menfi ha
un territorio vastissimo, che va dal livello del mare ad un entroterra
collinare di oltre 500 metri, ed è per questo che ha consentito molte
sperimentazioni, alcune molto fortunate altre meno interessanti.
A Belìce, che è a due passi dal mare, Chardonnay e Cabernet
Sauvignon sono stati piantati trent’anni fa e a mio parere si sono adattati
molto bene, dando vini davvero eccellenti soprattutto nelle annate più fresche.
Credo che per il futuro la sperimentazione sia fondamentale, magari lasciando
perdere vitigni estranei alla nostra tradizione e guardando piuttosto a varietà
autoctone che in passato sono state trascurate, come il Perricone e l’Alicante.

Nel mio personale futuro vedo vitigni in grado di dare vini
snelli e agili, come ad esempio il Frappato, di cui esistono alcuni cloni
aromatici. 
I tuoi vini sono molto esportati: che differenza credi che ci sia tra il consumatore medio italiano e quello estero?
Parlando di consumatori finali, credo che sia gli italiani
che gli stranieri cerchino cose molto simili: vini che parlino del produttore e
del territorio, che rappresentino veramente il luogo di origine e che siano
comprensibili e godibili.

Nei Paesi da poco consumatori credo che il marchio
affermato, il blasone siano ancora fattori importanti, ma sono sicura che anche
lì l’evoluzione verso un consumo più legato al contenuto della bottiglia e meno
all’immagine o all’etichetta non tarderà a svilupparsi.
Una caratteristica dei tuoi vini è l’espressione del territorio. Allora parliamo di Sicilia. Come sta cambiando secondo te il modo di fare vino in Sicilia e come credi che potrà proseguire negli anni la metamorfosi a cui stiamo assistendo da circa 25 anni?
La Sicilia cambierà davvero quando ci sarà un riequilibrio
della filiera vitivinicola
. A differenza di altre regioni, dove esistono
centinaia di piccole aziende vinicole, in Sicilia circa il 70% della produzione
è ancora in mano a poche grandi aziende, la maggior parte delle quali è
organizzata in maniera industriale. Tranne che in luoghi molto particolari,
come l’Etna, i viticoltori sono per lo più contadini che conferiscono le
proprie uve a vinificatori, disinteressandosi del prodotto subito dopo la
raccolta.
Fino a quindici anni fa le piccole aziende erano veramente
poche, alle manifestazioni ci contavamo sulle dita delle mani, ma per fortuna
questo numero sta aumentando, e sono sempre di più i viticoltori che hanno
compreso quanto sia importante valorizzare le caratteristiche uniche della
propria zona piuttosto che inseguire uno “stile” enologico genericamente
siciliano che poco racconta, e poche emozioni regala.

La Sicilia è un’isola grandissima, tra Marsala e Siracusa
c’è la stessa distanza che corre tra Torino e Venezia, con la differenza che
fra Torino e Venezia ci sono più di cento denominazioni che identificano vini
fortemente legati ai rispettivi territori, mentre in Sicilia le denominazioni conosciute
non sono più di cinque. In futuro sarà il lavoro delle piccole aziende a fare
la differenza, soprattutto appena comprenderanno quanto sia importante legare
il proprio nome a quello delle denominazioni “minori”, che esistono da anni, ma
che pochissimi ad oggi utilizzano.
Ambiente e clima sono argomenti sempre molto gettonati, nelle conversazioni con i produttori. Ti preoccupa il cambiamento climatico? Come influenza il tuo lavoro?
Sinceramente, le ultime vendemmie in Sicilia sono state
bellissime: la 2014 certamente la migliore degli ultimi dieci anni. Se
cambiamento climatico significa desertificazione, estati torride e siccità
prolungata, questo non sta avvenendo. Il mio lavoro continua, adattandosi anno
dopo anno ai micro cambiamenti che ci sono tutti gli anni: forse significa che
dobbiamo sottovalutare il problema? Certamente no come tema generale, ma non
drammatizzerei attribuendo al “cambiamento climatico” la responsabilità di
eventi che si susseguono ciclicamente da sempre, un anno più caldo e secco e
l’altro più fresco e piovoso. Piuttosto, mi concentrerei sul lavorare meglio, ascoltando
di più la terra e rispettandone biodiversità e vitalità, ciascuno nel suo
piccolo.