C’è chi dice che sia una moda. Altri sostengono che è iniziato un processo irreversibile.
Qualunque sia la verità è bene capire a fondo di cosa si parla quando – nel mondo del vino o più in generale in quello alimentare – parliamo di produzione biologica.
Il nostro geologo giornalista sommelier Matteo Capellaro ci ha inviato un articolo per provare a fare un po’ di chiarezza:

In questo periodo si parla spesso di agricoltura biologica e biodinamica. In vista dell’Expo del 2015 molte aziende stanno cercando di sensibilizzare i consumatori usando tutti i sistemi di comunicazione a disposizione: il web specializzato, in particolare i social network, è invaso di notizie legate a questo tormentone enologico.
Per evitare che il fenomeno biologico non sia solo un trend o una moda passeggera e termini in concomitanza con la fine dell’Expo, è bene spiegare di cosa si parla e soprattutto quali sono le conseguenze nel mondo del vino.


Noi tutti abbiamo presente il mercato biologico, quello che allestiscono periodicamente organizzazioni come Coldiretti e Cia nelle grandi città: si offre la possibilità agli abitanti di comprare a “chilometro zero”, vale a dire dal produttore al consumatore senza passare attraverso mediatori come grossisti o distribuzioni, in quanto le produzioni sono esigue.
Si mangia all’antica, prodotti “bio” cioè quindi non troppo artefatti o rimaneggiati dall’uomo, coltivati con pratiche semplici, ottenuti senza l’uso diserbanti o agenti chimici e nel pieno rispetto della natura. Diversi piccoli vignaioli partecipano e si recano a questi mercati con le loro bottiglie, tuttavia sentiamo parlare di biologico anche all’interno di aziende molto grandi che producono centinaia di ettolitri di vino. Cosa significa quindi parlare di biologico oggi?
La certificazione biologica viene riconosciuta al produttore se in vigna non si utilizzano “fertilizzanti sintetici pesticidi e stimolatori di crescita utilizzando concimi di natura prettamente organica. Si basa sul controllo biologico dei parassiti in modo da mantenere la produttività del suolo”. Ci sono diversi modi di essere biologici: un’azienda ci nasce o ci diventa e – in questo caso – si parla di conversione biologica. 
Il riconoscimento viene dato all’azienda soltanto dopo cinque anni, cioè dopo il tempo necessario affinché il ciclo produttivo rispetti le regole della certificazione e il consumatore possa quindi esserne messo al corrente da una bandierina verde che viene apposta in retroetichetta della bottiglia. 
C’è chi non si accontenta del biologico ed è andato a rispolverare antiche pratiche spirituali che invitavano a considerare come un unico sistema il suolo e la vita che si sviluppa su di esso. Gli appassionati di esoterismo ricorderanno il filosofo Rudolf Steiner e la sua teoria dell’antroposofia: “conoscere e studiare con un metodo scientifico enti che non appartengono all’ordine delle realtà accostabili dalla conoscenza scientifica.” Più semplicemente la biodinamica tenta di perpetuare nel tempo i sistemi biologici cercando di ridare energia vitale ai terreni attraverso l’interramento di particolari piante a scopo fertilizzante e l’utilizzo di preparati a base di polvere di quarzo, letame e sostanze vegetali in diluizione omeopatica, ossia portando il preparato ad un punto tale per cui non avere più alcun tipo di effetto tossico indesiderato. 
Alcuni viticoltori, che potremmo definire “estremi”, applicano la regola in maniera ortodossa ed il risultato è che mettono sul mercato vini bianchi privi di limpidezza, addirittura torbidi; essi si rifiutano di utilizzare anche le pratiche più naturali come l’aggiunta di bentonite nelle chiarifiche in cantina. In alcuni casi controbilanciano l’ossidazione affinando il vino in botti non del tutto colme con alte gradazioni, per ovviare alla mancata aggiunta di solfiti, come fa Fausto Andi, produttore nell’Oltrepò Pavese. 
Altri vigneron vinificano in stile georgiano in anfore interrate, lasciando il mosto a contatto con l’aria, favorendo così grandi ossidazioni.
Se biologico e biodinamico sono procedure che si mettono in pratica su vigne preesistenti, la viticoltura olistica è ancora più interessante seppur molto meno diffusa. Il classico terroir, che ci regala informazioni utilissime sulla diffusione, vigoria, crescita di un particolare vitigno, presenza o meno di parassiti, tipo di terreno, trattamenti mirati, viene momentaneamente messo da parte lasciando spazio all’intuizione umana che dopo un accurato studio dell’ecosistema di un ambiente ad esempio boschivo, decide di trasformarlo in uno completamente diverso mettendo a dimora delle piante di vite.
Così, in un ambiente incontaminato dove le radici delle piante e il sottobosco hanno alimentato per secoli il terreno regalandogli molto humus ed energia, si disbosca e si creano vigneti con una forte componente biologica di partenza cercando di mantenere intatto l’ecosistema precedente. Così facendo menti e mani esperte, collaborando con le caratteristiche preesistenti naturali di un luogo le perpetuano nel tempo, utilizzando parametri biologici e biodinamici. 
La difficoltà sta proprio nel mantenere ovviamente il giusto equilibrio. In Italia attualmente non c’è un riconoscimento per l’approccio olistico in agricoltura, che – è bene sottolinearlo – non produce alcun tipo di inquinamento. Un esempio di viticoltura olistica è quella attuata dall’azienda agricola dei Colli Tortonesi, I Carpini di Pozzol Groppo (AL).
Adesso… dove, quando e perché si possono applicare tecniche biologiche? [continua…]