Com’era quella frase? L’attesa del piacere è essa stessa piacere…
No, non siamo diventati i classici guru da tastiera che infestano i social con le solite frasi riciclate dal web, però è vero, Lessing aveva e ha pienamente ragione: qui in redazione abbiamo desiderato questo Poliphemo 2006 per anni, ne avremmo degustato botti intere con l’immaginazione, e ogni volta che ne
leggevamo una recensione era come se vi fossimo presenti. A detta degli addetti ai lavori, perdonate la ridondanza, è tra i Taurasi più buoni di sempre, perciò lo abbiamo cercato per anni in lungo e in largo nel web, fino a scovarlo nella carta dei vini presente sul sito di un semisconosciuto locale di Napoli “Salve, per caso avete ancora disponibile il Poliphemo 2006 di Tecce?

Non credo proprio, ma guardo in cantina giusto per scrupolo… niente… qua nulla…ah, forse qui in fondo nascosta… eccone una, l’ultima!

La prego, me la tenga da parte, le mando subito una persona a ritirarla!”

E che dirvi di quando, a distanza di dieci anni, Luigi Tecce ha tirato fuori le 100 magnum del Poliphemo 2006
(in cui è incluso l’album autografato “Canzoni della cupa” di Vinicio Capossela, migliore amico di Tecce
nonché disegnatore delle sue etichette)? Il desiderio di provarlo è cresciuto a dismisura, lasciando poi, un
attimo dopo, il posto alla paura: e se fosse troppo tardi per berlo? Se la bottiglia fosse semplicemente “una
bottiglia sfortunata?”. In rete troverete articoli che parlano di venti, trent’anni di vita per questo Taurasi,
ma a noi comuni mortali questi tempi sono sicuri solo per la durata del mutuo, non sempre per quella di un
vino.
Ed ecco che qualche sera fa arriva il famoso segnale dal cielo, anzi, il segnale digitale: la tv trasmette “C’era
un cinese in coma”, film del 2000 di Verdone. Un attore a un certo punto racconta una barzelletta, in cui il
figlio di Polifemo, con la pervicacia tipica dei bimbi, chiede con insistenza al papà “perché abbiamo un
occhio solo? Perché? Perché?”. Il padre, impegnato in altre faccende, risponde di non avere tempo, ma
all’ennesimo perché del figlio, sbotta “Basta Polifemino, e non mi rompere la palla!”.
Il segnale era chiaro: il Poliphemo andava aperto!
Ora non staremo qui a raccontarvi la storia di Luigi Tecce e del suo famoso Taurasi, le conoscete tutti
entrambe, e le quattro anime che le ignorano sappiano che il web ne è pieno.
Più curioso sarebbe accennare alla storia di Polifemo, ma in redazione non abbiamo componenti della
famiglia Angela, e di Quark potete solo suonarvi in testa la musichetta. Vi risparmieremo perciò anche la
storia di Ulisse/Nessuno, del palo conficcato nella pal… ehm, nell’occhio, e della fuga tra il gregge, però non
possiamo fare a meno di soffermarci a pensare alla possibilità che il nome Poliphemo sia venuto in mente a
Luigi Tecce pensando alla sua storia, una storia di solitudine e di felicità trovata in essa, per certi versi simile
a quella del ciclope raccontato da Omero. Chissà se anche lui, trovatosi suo malgrado in un mondo che non gli apparteneva, abbia immaginato di diventare un gigante tra le sue vigne, un genius loci solitario, di certo per noi un gigante della viticoltura.
Quel che ora finalmente sappiamo, dopo averlo provato è che il Poliphemo, nomen omen, è davvero un
gigante, un Titano. Un vino che è necessario far sviluppare nel calice. Non apritelo ore prima. La bellezza sta tutta lì nel vederlo crescere, evolversi, trasmutarsi in altre forme e colori e consistenze.

Un divenire continuo perpetuo, quello non dei grandi vini ma di quelli unici. I vini della grande bottiglia
della grande annata. Nel corso di questi anni abbiamo compreso, o forse solo immaginato, che il primo calice non è quello su cui  basare la degustazione ma è solo un inizio. Per apprezzare il vino occorre puntare sul secondo o, in pochi casi come questo, sul terzo calice. Semplicemente un’evoluzione perpetua che chiede solo di essere
scoperta. Il primo calice risulterà così introverso, quasi scostante, noi diciamo “chiuso” ma animato da una
traccia trasversale balsamica che parte scura, molto dark e finisce incredibilmente leggera, soffice al terzo
calice. Un divenire dicevamo di arancia sanguinella che si trasforma presto in una ciliegia appena sotto
spirito e subito amarena. Poi entra la spezia. Il caffè ma verde, verde perché il balsamico è sempre lì a
comandare. È al terzo calice poi che esce fuori l’anima polverosa, di ceneri e fuliggine. Un esperienza tattile
che dà tridimensionalità al sorso, un sorso comunque incredibilmente equilibrato. La giusta acidità, la giusta
sapidità, il tannino, l’alcool, la morbidezza. È tutto lì dosato col misurino, come stare sul filo del rasoio e non
cadere mai.

Quanti vini buoni avete bevuto? Molti, tanti.
Quanti eccellenti? Più di qualcuno.
Quanti unici? Pochi. Ecco questi sono quelli che ricorderete, i vini della memoria, quelli che hanno inciso la
mente con un ricordo indelebile che quasi puoi assaporare anche a distanza di anni, perché in fondo
tutto ciò che di bello, colorato e profumato troviamo in un calice, cos’altro è se non ricordi?