Di Vincenzo Liburdi

Perché sono andato al Vinissage? In fondo a Milano gli appuntamenti e le kermesse di vino, le presentazioni di questo o quel produttore, le degustazioni, gli incontri in enoteca sono tali e tanti da potersi costruire una buona cultura enologica senza dover abbandonare la tariffa urbana dei
biglietti ATM.
Eppure sabato 23 maggio ho deciso di andare ad Asti.

Lì, nel Palazzo dell’Enofilia, si è tenuta una fiera di vini biologici, biodinamici e naturali.

Personalmente sono sensibile da sempre, da prima che mi avvicinassi al mondo del vino, al tema della genuinità del cibo, della sicurezza alimentare, all’affascinante intreccio tra cultura ed alimentazione, tema su cui ci hanno costruito niente di meno che l’Esposizione universale 2015, proprio qui a Milano.
Ad Asti c’erano circa 130 aziende, o produttori, dato che alcuni sono così piccoli che paragonarli dimensionalmente a ciò che intendiamo con “azienda enologica” sembra quantomeno azzardato. Con il termine azienda si evocano una produzione ed una filosofia quasi “industriali”, con un proprietario, molti dipendenti, un fatturato… 
I produttori incontrati al Vinissage invece hanno più attinenza col termine “vignaioli”, vigneron in francese, cioè gente che lavora la propria vigna, che ne conosce ogni singola pianta, che la pota, la protegge da malattie, la vendemmia, segue gli eventi meteorologici di stagione in stagione tra preghiere e bestemmie, e poi lavora in cantina in ogni fase necessaria alla nascita e alla maturazione di un vino.
E’ questo modello di produzione che mi affascina ed attrae, così vulnerabile all’interno dell’economia nazionale e planetaria, eppure dotato di una passione e forza di volontà tali da bilanciare i mille rischi che si corrono ogni anno. 
E i vini che producono sono i loro migliori ambasciatori…
Difficile sarebbe stato passare per tutti i banconi ed assaggiare da ognuno di loro i vari vini in degustazione, per motivi di tempo e di “capacità”, purtroppo in queste rassegne, molto non si riesce a conoscere, per cui assieme ad un amico, ho iniziato a muovermi un po’ a caso, passando però prima da qualche “vecchia conoscenza” come Il Calamaio di S. Macario (LU). Accolti dal bel sorriso di Samuele assaggiamo i tre vini:
Soffio 2014 (chardonnay 60%, petit argine 30%, petit manseng 10%) dotato di un bel tocco minerale che fa da struttura alla sua caratteristica principale data da aromi floreali (l’eleganza dello chardonnay c’è e si sente!).
Poi passiamo ai rossi:
Poiana 2012, interamente da tre cloni di sangiovese, il passaggio in legno previsto solo per una parte fa sì che i tannino risultino ben levigati. E’ già pronto, dispiegato su note floreali e di frutta rossa, ma potrebbe regalarci piacevoli sorprese anche tra qualche anno.
Antenato 2013 (barsaglina, mazzette, buonamico, colorino, ciliegio, etc.), il vino degli avi, un blend da vigne di 40­-50 anni, assemblato come facevano gli antichi. Resta a contatto con le bucce per 15 giorni in tini di castagno, poi passa in acciaio dove viene effettuata anche la fermentazione malolattica, infine è imbottigliato. 
Ne risulta un vino intenso, lungo, ricco di sentori fruttati ma anche speziati, con un buon tenore alcolico e un tannino che lo bilancia.
Bel vino, ricco di personalità, raccomandato a chi ha timore di uscire dal sicuro recinto dei vini monovarietali.
Restando in Toscana ho voluto visitare Il Cerchio, di cui avevo bevuto un alicante, qualche anno fa. L’azienda è nata per iniziativa di una famiglia milanese che si trasferì in Maremma, nel 1992, mollando uno studio di architettura per un futuro nell’agricoltura (!).
La signora Corinna mi racconta un po’ della loro storia, che segue una scelta che adesso si mostra come quella più giusta, ma allora, quando fu presa, somigliava più ad una follia. Mi parla degli inizi, non facili, e di un momento chiave, quando un tipo, parlando di lei con un altro, l’apostrofava come “la signora che lavora come n’omo“. 
Era stata ufficialmente accettata nel mondo dei vignaioli maremmani.
Chiedo di assaggiare di nuovo l’alicante, il Tinto 2012 da alicante bouschet, sedici mesi in legno (piccolo e grande) ed un altro anno lo trascorre in bottiglia prima di farsi vedere sugli scaffali delle enoteche, ricordavo di averne bevuto il 2010, accompagnando un pasto molto speziato. Aveva convinto tutti i commensali, di un bel corpo, rotondo, lungo nella persistenza e con un tannino che ottimamente si sposa con piatti succulenti.
Ho anche assaggiato l’Ansonica (ansonica 90% min, fermentino) un bel bianco sapido con gradevoli note fruttate, equilibrato sin da giovane.
Nel girovagare in quel paese dei balocchi, mi sono fermato da Cento filari, una piccola realtà piemontese di Mombaruzzo (AT), dove ho degustato un Pinot Nero “brigante”, una Barbera d’Asti (Mombaruzzo è una zona particolarmente vocata per la barbera) ma soprattutto la Freisa 2012 (freisa 100%) che matura per metà in acciaio e per l’altra metà in botti grandi usate per otto mesi; mi ha impressionato la sua inaspettata potenza tannica e la conseguente capacità di evoluzione. Un vino sorprendente che forse sottovalutavo, meritava il passaggio.
Interessante anche il Piasì 2012, un interessante aleatico passito da viti di oltre settanta anni, vinificato in bianco, con un appassimento minimo di due mesi.
La stessa azienda produce una freisa “chinata”, per amanti dei vini aromatizzati.
Un altro interessantissimo produttore è il friulano Aquila del Torre a Savorgnano del Torre, un passo dalla Slovenia. E’ uno dei pochi luoghi dove il Picolit ha resistito all’espianto, dovuto alla sua bassissima produttività, e dove ci regala delle espressioni meravigliose ed uniche. 
L’Azienda familiare si dispiega su diciotto ettari, circondati da altri 66 di bosco. 
La degustazione è iniziata con un Riesling 2009 (riesling renano 100%), caratterizzato da grande mineralità, un’acidità non troppo spinta ma che ancora si fa sentire. Un riesling che nonostante i quasi sei anni non possiamo definire che pronto, non ancora maturo, quindi con grandi potenzialità di evoluzione.
Il Friulano 2012, (friulano 100%), offre piacevoli note di erbe officinali, salvia su tutte, e viene suggerito in abbinamento con il prosciutto San Daniele.
Il Vit dai Maz 2012 (sauvignon 100%) trascorre in tonneau di rovere dai nove ai dodici mesi e ciò gli consente di sviluppare delle note di burro, nocciole appena mature non tostate, sentori erbacei di fieno ed erba tagliata. Un sauvignon sui generis, ma d’altra parte per il Friuli Venezia Giulia il sauvignon è ormai un vitigno quasi autoctono, tanto è forte la tradizione attorno ad esso, e riesce a ricavarne delle espressioni distinte da quelle che caratterizzano la produzione in altre zone del mondo.
Con l’Oasi (picolit 100%) è finalmente Picolit! Siamo ancora alla versione secca, con un piccolo residuo zuccherino appena percettibile; la persistenza ci lascia appena intravedere cosa accadrà con il dolce.
Ed ecco il piccolo principe del Friuli Venezia Giulia, Picolit, il vitigno che è solo qui e che in pochi hanno sottratto dall’estinzione sfidando le logiche della quantità, ripagati però da una qualità straordinaria. 
Il vino è morbido, caramellato, ampio nel bouquet, offre spezie come cannella e chiodi di garofano, ma anche terra, frutta secca, legno, tabacco… Un vino straordinario, da meditazione, per tutti i cinque sensi. 
Quasi al termine del pomeriggio, mi accorgo di alcune bottiglie in un bancone piemontese del Monferrato, dell’azienda Rugrà
Sono bottiglie che mostrano sull’etichetta il nome Picùla Rùsa, appartenente alla Doc Monferrato Rosso. Quel nome è sufficiente ad incuriosirmi. 
Una donna si sporge al di là del bancone in modo gentile, quasi timidamente, è la signora Luigia Zucchi che mi invita ad assaggiare i suoi prodotti.
Ne propone diversi, ma sono ormai in dirittura d’arrivo per le mie capacità e preferisco concentrarmi su quell’etichetta, che si rivela la vera curiosità della piccola azienda. 
E’ il Nibiò, la chicca della giornata. 
Un vitigno che ha sfiorato l’estinzione, come tanti che non hanno retto la competizione con altri più produttivi e versatili, e che tuttora è meno che raro, per usare un eufemismo.
In un recente passato le sue uve però godevano di ben altro credito, la signora Zucchi ci mostra con orgoglio delle copie di documenti risalenti alla fine del XIX secolo in cui le uve migliori sul mercato di Novi Ligure, le più attese e quindi più pregiate anche economicamente, erano quelle della varietà “nibiò d’Tasarò da a picùla rùsa“. Possiede anche una bella foto di due vigne attigue, una di nibiò e l’altra di dolcetto, nelle loro vesti autunnali.
La foto non lascia adito a dubbi, non possono essere la stessa cosa, il colore delle foglie cambia nettamente da una vigna all’altra, sul giallo dorato la vigna di dolcetto, decisamente di un rosso acceso quella del nibiò.
Il nibiò è andato incontro a decadenza per due motivi, intanto produttivi, ma soprattutto perché ha dovuto subire la crescita commerciale e nel prestigio del nebbiolo, che, imponendosi sul mercato, non ha tollerato quella scomoda assonanza fonetica.
Soltanto nel 2007 è nata l’Associazione “Terra del nibiò” risultato di anni di ricerca che il comune di Tassarolo ha condotto, assieme al centro sperimentale vitivinicolo della Regione Piemonte “La Tenuta Cannona” sullo storico vitigno autoctono sopracitato; scopo dell’Associazione è di tutelare e promuovere tale vitigno oltre che di regolamentarne i criteri di produzione.
Una vicenda affascinante quanto irta di ostacoli, a causa della difficoltà di imporre il proprio nome, troppo simile al vitigno nobile del Piemonte per eccellenza, il nebbiolo.
Ho assaggiato il Picùla Rùsa 2010, colore rubino con ancora qualche riflesso violaceo, bei profumi di frutta rossa e nera, tannico ma senza mostrare aggressività, un bel vino elegante, armonico.
Non posso che augurare alla signora Zucchi e a tutta l’Associazione i miei migliori auguri per il grande lavoro di recupero di questo piccolo tesoro quasi perduto.
Ancora una volta, ogni rassegna riesce a regalare una novità. Qualcosa di diverso ed inatteso rispetto a ciò che ci aspettavamo o sapevamo. 
D’altronde il vino, tra le altre cose, è sempre una sorpresa.